Sono cresciuto in un mondo – la prima guerra fredda – in cui si usava il termine “finlandizzazione”. Non nelle cene di famiglia… però sui giornali e nei dibattiti di politica estera. La Finlandia era una realtà e una metafora al tempo stesso. Questo vasto ma spopolato paese nordico si era distinto in una eroica guerra di resistenza contro Stalin, era riuscito a salvare la propria indipendenza contro un’armata sovietica ben più grande. Il 30 novembre 1939, dopo essersi “spartito” la Polonia con Hitler in base al patto Molotov-Ribbentrop, il dittatore comunista aveva lanciato l’Armata rossa alla conquista della Finlandia. In tre mesi di combattimenti le forze sovietiche non riuscirono a domare un esercito finnico molto più piccolo, e Stalin dovette rinunciare. In seguito, per evitare di essere fagocitati dall’orso russo, i finlandesi appoggiarono l’Operazione Barbarossa di Hitler, quando quest’ultimo stracciò il patto Molotov-Ribbentrop e si rivoltò contro l’alleato.
La scelta della Finlandia: diventare neutrale
Finita la seconda guerra mondiale, e avendo provato sulla propria pelle l’aggressività del vicino, la Finlandia ne aveva tratto una conseguenza geopolitica: meglio diventare neutrale per non eccitare gli appetiti di Mosca. Come l’Austria, altra nazione di confine tra Est e Ovest, durante tutto il periodo della guerra fredda la Finlandia aveva accettato un destino di sovranità limitata. Neutrale fra i due blocchi – e spesso padrona di casa per importanti vertici Usa-Urss, a Helsinki – aveva potuto optare per il modello occidentale in ogni altra sfera: democrazia, libertà di espressione, stato di diritto, economia di mercato.
“Finlandizzazione” era diventato un termine che statisti ed esperti maneggiavano con rispetto, ammirazione, apprensione o paura. Negli anni Settanta, quando l’Urss tentò di alterare brutalmente gli equilibri strategici dispiegando i suoi missili SS-20 con testate nucleari contro l’Europa occidentale, vi fu il timore che l’ombrello nucleare americano perdesse valore. Una parte del movimento pacifista auspicava apertamente la “finlandizzazione” dell’intera Europa.
Gli Anni 80
Ricordo la frequenza d’uso di quel termine negli anni Ottanta, quando facevo il corrispondente a Parigi. Il blocco comunista a Est scricchiolava sotto il peso di un disastro economico ed etico; il cancelliere tedesco Helmut Kohl e il presidente francese François Mitterrand negoziavano con Washington e Mosca i futuri assetti dell’Europa. Viaggiando spesso tra Parigi Bruxelles e Bonn (allora capitale federale) incontravo molti esperti di geopolitica sia tedeschi e francesi che s’interrogavano sullo scenario di una Germania “finlandizzata” come condizione per la sua riunificazione.
Nel frattempo la Finlandia, quella vera, si stava avvicinando piano piano alla Nato. Senza fare chiasso, senza strappi clamorosi. Proprio come la vicina Svezia, si stava convincendo che la neutralità era una bella cosa da proclamare per placare l’Unione sovietica, però nei fatti non aveva senso. Se neutralità significa equidistanza, non si addice a Helsinki (né a Stoccolma). Non è equidistante geograficamente tra un’America lontana e una Russia troppo vicina. Non è equidistante come sistema di valori: la Finlandia è una terra di libertà e rispetto dei diritti umani. Non è equidistante come rischio strategico: l’unico potenziale aggressore è il suo vicino orientale, non ci sono altri pericoli all’orizzonte. Sicché sotto l’apparenza della “finlandizzazione”, da anni Helsinki ha già abituato le sue forze armate a consultarsi con quelle della Nato, a collaborare, a coordinarsi.
L’invasione dell’Ucraina e l’adesione finlandese alla Nato
Poi è venuta la tragedia del febbraio 2022, l’invasione dell’Ucraina, che ha precipitato le cose. Il rischio russo non è più un’ipotesi, è diventato una realtà molto concreta e immanente, per chi vive a Helsinki. Politici e popolazione hanno deciso all’unisono: addio “finlandizzazione”, era ora di scigoliere ogni residua ambiguità, aderire alla Nato, entrare a tutti gli effetti in un’alleanza difensiva contro l’unico pericolo dal quale i finlandesi devono difendersi.
Oggi, mentre scrivo, la Finlandia sta ospitando delle esercitazioni Nato. In seguito all’adesione di Helsinki il confine russo-finlandese è diventata la più lunga frontiera terrestre fra l’alleanza atlantica e la Russia: 1.330 chilometri. Ai tempi della “finlandizzazione” le due frontiere calde Est-Ovest erano situate in Germania e in Turchia, oggi il baricentro si è spostato molto più a Nord. La Finlandia ha rapidamente adeguato la propria spesa militare per raggiungere il 2% del Pil, obiettivo minimo concordato tra gli Stati Membri fin dai tempi di Barack Obama (ma tuttora disatteso da molti fra cui l’Italia). Governo, media e ong finlandesi denunciano una escalation di atti ostili da parte di Putin: dai cyberattacchi ai flussi di migranti clandestini. Il neo-presidente finnico, Alexander Stubb, ha manifestato disponibilità ad autorizzare il dispiegamento di armi nucleari sul suo territorio, superando un antico divieto.
Cosa resta, oggi, della finlandizzazione?
La “finlandizzazione” nel suo significato originario è un ricordo del passato, il comportamento di Putin ha costretto questo suo vicino a correre ai ripari. Di paesi neutrali in Europa ne rimangono, a cominciare da Svizzera e Austria che come noi fanno parte dell’Occidente democratico e capitalistico: nessuno di questi due però condivide una frontiera con la Russia, il timore dell’espansionismo di Mosca non li riguarda in modo così diretto e attuale.
Nel mondo pacifista la mentalità non è cambiata rispetto agli anni Settanta e Ottanta: molti aspirano, apertamente o implicitamente, a un divorzio dall’America. Poiché oggi “finlandizzarsi” significherebbe aprire gli occhi e alzare il livello di difesa, l’opzione alternativa dovrà ribattezzarsi: “elvetica” o “austroungarica”?