Ebbene, mi domando se la rivolta degli universitari anti-Israele, mastodontica in America e in procinto di affermarsi in Italia, non dipenda dal fatto che anche i palazzi accademici sono caduti in preda della dittatura delle emozioni. Fino a non molto tempo fa, infatti, andare all’università significava diventare adulti e imparare a mettere da parte il sé in favore della conoscenza (sempre utile), del profitto (meglio di niente) e in generale del compromesso con la realtà. Con gli anni si è invece affermata l’idea che l’università sia l’indefinito prolungamento di ciò che già invale nella scuola: un insegnamento incentrato sul riconoscimento unilaterale della sensibilità degli studenti, da blandire e assecondare come si fa con gli squilibrati.
Un tempo si andava all’università per diventare qualcuno; adesso ci si va per dimostrare di essere qualcuno: qualcuno che ha le crisi di pianto per il cambiamento climatico, qualcuno che vuole cambiare pronome, qualcuno che pianta una grana contro la competitività e il merito, qualcuno che si sente offeso da parole a caso, qualcuno che pretende misure dispensative e compensative per i motivi più creativi, qualcuno che dà di matto agli esami o manda la mamma a consegnare la sua tesi. Le proteste anti-Israele, i cui slogan sembrano più frutto di una crisi isterica collettiva che di ponderati pareri geopolitici, potrebbero iscriversi nello stesso filone. Certo, resta profondamente sbagliato che poi arrivino i poliziotti e menino fendenti; a meno di volerli giustificare dicendo che, in fondo, hanno diritto di emozionarsi anche loro.