Se si può legittimamente manifestare contro la guerra scatenata da Israele senza essere per questo tacciati di antisemitismo, come a buon diritto rivendicano i tanti (anche ebrei, anche israeliani) oppositori di Benjamin Netanyahu, pare invece che non sia possibile manifestare credibilmente senza essere anche antisionisti. Attraverso una serie di salti tanto illogici quanto tendenziosi, denunciare il disastro umanitario di Gaza vuol dire essere contro il governo israeliano, e questo vuol dire essere contro Israele, e questo vuol dire essere contro il sionismo, e considerare il sionismo come qualche cosa di esecrabile, infamante, immondo. Impronunciabile, addirittura, se non preceduto dal prefisso avversativo anti-: in sostanza, il nuovo fascismo (o nazismo).
E infatti, «antifascismo è antisionismo» si leggeva negli striscioni del «25 aprile antifascista e antisionista», ostentati da sedicenti «ieri partigiani, oggi antisionisti e antifascisti» di bel nuovo uniti nella lotta contro «i crimini sionisti» e «l’Olocausto sionista». «Fuori i sionisti dagli atenei» è anche – assieme a «Free Palestine» – lo slogan più presente negli striscioni degli studenti che un tempo al posto di sionismo avevano la parola fascismo. In Italia non meno che in America e in buona parte dell’Occidente, che come è noto porta il nefando fardello dell’uomo bianco.
Apro una parentesi: qui parlo per me stesso. Io disapprovo – non basta? Condanno (per quel che può valere la povera condanna di un privato cittadino: mi fanno ridere, ma anche un po’ pena, le mosche cocchiere convinte di vendicare le ingiustizie del mondo a colpi di condanne dal salotto di casa) – la tragedia che da sei mesi a questa parte si vive a Gaza, la ritengo non solo un orrore ma un orrore controproducente che non potrà portare a nessuna vittoria contro il terrorismo di Hamas e anzi, moltiplicando l’odio, ne accrescerà le fila aumentando i rischi di un conflitto più vasto.
E però non sono antisionista. Neppure, in verità, potrei dirmi sionista (e quindi mi salvo, credo, dalla eventuale accusa di fascismo), perché credo che questa etichetta vada riservata a chi attivamente in prima persona partecipa del movimento politico-religioso chiamato sionismo. Però guardo con ammirata simpatia alla caparbietà con cui questo movimento ha saputo perseguire i suoi legittimi fini: il termine che meglio mi si potrebbe addire è forse «filo-sionista». Sarò allora filo-nazifascista?
L’equazione sionismo uguale nazismo si sta ormai installando nelle coscienze come nel linguaggio, generando un nuovo interdetto. E la cosa è tanto più sconcertante in quanto accomuna in un tragico – forse non del tutto ingenuo – equivoco, ai giovani più candidamente smaniosi di tornare a impegnarsi per una santa causa e agli antagonisti meno candidamente in cerca di occasioni per dare sfogo al loro antagonismo, anche tanti adulti e, nelle università, non pochi docenti e qualche rettore: persone dalle quali sarebbe lecito attendersi, se non equilibrio e serenità di giudizio, almeno una maggiore consapevolezza storica e lessicale.
Come è possibile una simile mistificazione? Il sionismo è nato alla fine dell’Ottocento quale episodio particolare del più generale movimento dei nazionalismi moderni come reazione ai pogrom e alle discriminazioni di cui era vittima il popolo ebraico della diaspora.
Il ricongiungimento in Erétz Yisra’él, la Terra promessa e perduta, all’ombra della collina gerosolimitana di Sion, rispondeva all’aspirazione di tornare ad autodeterminarsi dopo quasi duemila anni in un proprio Stato: un sogno antico che tornava attuale, un progetto visionario in apparenza impossibile, divenuto realtà sulle solide basi di una identità tenacemente coltivata nei secoli e che ha comportato la reinvenzione di una lingua comune sopravvissuta soltanto come idioma religioso e letterario.
Questo e non altro è il sionismo. Tanto è vero che ai suoi valori la scorsa domenica ha fatto puntuale riferimento il generale Yair Golan, candidato premier in pectore del partito laburista, intervenuto in collegamento all’assemblea milanese di Sinistra per Israele: «Non possiamo riconciliarci con Hamas o con la jihad islamica, ma abbiamo il dovere di riconciliarci con i palestinesi. […] L’unico modo per ridare slancio al progetto sionista è ridare forza alle sue fondamenta. Israele è la patria del popolo ebraico, e allo stesso tempo deve essere un Paese liberale, democratico, egualitario, equo, libero e plurale».
Lungi dal configurarsi come un’ideologia autoritaria programmaticamente razzista, violenta e sopraffattoria quale era quella hitleriana – un misto di delirio superomistico, fantasie nibelungiche premoderne e dottrine genetiste campate in aria –, il sionismo ha avuto fin dai primordi una impronta laico-socialista che lo ha imparentato con la sinistra internazionale, a cui peraltro ha dato molti dei più importanti pensatori.
Una vocazione che ha sempre convissuto con le anime religioso-tradizionaliste e si è tradotta nella forma organizzativa più caratteristicamente israeliana: quella dei kibbutz, le comunità agricole fondate sui principi dell’egualitarismo e della proprietà collettiva, alla volta delle quali, in anni passati, partivano anche dall’Italia per andare a trascorrervi le loro vacanze lavorative i figli della sinistra colta (padri forse di quelli che oggi marciano per la Palestina palestinese from the river to the sea).
Certo, si potrebbe obiettare che la realizzazione del sogno sionista, con l’afflusso massiccio di popolazioni in gran parte di origine europea e provviste di una forte coesione culturale, era destinato inevitabilmente a mettere in crisi gli equilibri della regione, generando tensioni non facilmente gestibili con la componente araba.
Ma questo non sembra – e di fatto non è sembrato, tanto più in presenza della caccia all’ebreo scatenata nei paesi caduti sotto il giogo della croce uncinata – una ragione sufficiente per contrastare quel sogno; e in ogni caso le responsabilità maggiori andrebbero ascritte a chi – Regno Unito in primo luogo, e poi le Nazioni Unite – non ha saputo gestire la situazione che aveva contribuito a creare, e a un certo punto ha preferito disinteressarsene (in questo sì, l’Occidente porta effettivamente un fardello).
E certo, qualcuno potrebbe ancora obiettare, nel corso degli anni il sionismo ha cambiato fisionomia, da ideologia tesa alla creazione di uno Stato in cui gli ebrei dispersi si sentissero finalmente a casa loro è diventato l’impalcatura della sopraffazione di una parte sull’altra: ossia è diventato un’altra cosa, è degenerato. Ma è degenerato il sionismo o sono alcuni dei leader che si sono succeduti al governo dello Stato reso possibile dal sionismo ad aver costruito il loro potere esorbitando dai fini originari? Dovremmo forse essere anti-cristiani, perché nella storia del cristianesimo c’è stata l’Inquisizione, ci sono state le guerre di religione? In realtà nessuno, almeno nella nostra parte di mondo, anche se non credente, negherebbe al cristianesimo il diritto di esistere e di organizzarsi come fede.
Bisogna fare attenzione a come si usano le parole, perché la scelta delle parole non è mai neutra. Se teniamo presente il significato proprio del termine sionismo, non quello che gli viene capziosamente attribuito, fare professione di antisionismo vuol dire negare a Israele il diritto di esistere, osteggiare una legittima aspirazione nazionale, che ad altri popoli, invece, si ritiene giusto garantire.
E dunque, riguardo a chi in questi giorni (e da prima di questi giorni) manifesta contro Israele, ci sono due possibilità: o è sincero quando dice di non essere antisemita, nel qual caso sbaglia a dichiararsi antisionista; oppure è davvero antisionista, e allora, magari inconsapevolmente, nutre nel suo cuore il pregiudizio antisemita.