Lorenzo Guerini aveva chiesto con diplomazia di non sottoscrivere il referendum vendicativo della Cgil sul Jobs Act, ma Elly Schlein ieri l’ha firmato lo stesso: «Bon potevo fare altrimenti». Un cazzotto nell’occhio dei riformisti dopo quello delle candidature anti-Ucraina Cecilia Strada e Marco Tarquinio. Alessandro Alfieri usa poche parole: «Io firmo sul futuro, sulla legge di iniziativa popolare per il salario minimo, non sul passato». Signorile, ma abbastanza innervosito.
Schlein poteva evitare. In un partito diviso sulla riforma del governo Renzi, all’epoca appoggiato da tutto il Partito democratico, poteva starne fuori. Invece ha detto sì a un referendum-specchietto per le allodole, molto de sinistra, che andrebbe a toccare una legge che in buona parte è già cambiata e per un’altra buona parte già invecchiata. Uno scalpo di un’epoca comunque finita, uno spettro che turba ancora i sogni di un sindacato che da anni non riesce a cavare un ragno dal buco e che dunque ha sempre bisogno di mulini a vento contro cui partire lancia in testa per giustificare la propria presenza politico-mediatica.
C’è da dire che Matteo Renzi aveva visto giusto qualche giorno fa, a Palermo: «Il Pd di oggi sta con Cgil e Landini. Domando ai riformisti: ma che ci fate ancora là dentro?». E ieri ha rincarato ironicamente: «Finalmente si è fatta chiarezza!». Ma i riformisti non avevano risposto al richiamo della foresta renziana. Non è quella la loro prospettiva.
Il problema di fondo del Partito democratico è che dopo un anno di segreteria nessuno è ancora riuscito a capire esattamente dove Elly Schlein porterà il suo partito, se a candidarsi per il governo del Paese con un progetto credibile o se buttarsi nelle braccia di Giuseppe Conte (e appunto Maurizio Landini) per continuare sulla strada della testimonianza radicale restando ovviamente all’opposizione per anni. La firma di Schlein depone per questa seconda opzione.
I riformisti democratici aspettano di capire come va a finire rischiando di arrostirsi a fuoco lento nell’attesa di capire cosa fare da grandi, ma ritengono che a occhio e croce tra stare in un partito del venti per cento che non ti va proprio a genio o andare in uno del cinque che comunque è un’incognita, beh, la prima che hai detto. Certamente non è da loro che verranno mai polemiche particolari contro Renzi, e per la verità nemmeno Schlein ha detto qualcosa contro il leader di Italia Viva. Anzi, è convinzione di Stefano Bonaccini e degli altri riformisti, ma in fondo anche di Schlein, che se nascesse e si rafforzasse una “cosa riformista” alla destra del Partito democratico sarebbe una buona cosa anche per quest’ultimo: ma questo non dipende dai dem, obiettivamente.
Il tormentone delle liste per l’area riformista non si è chiuso male, anche se hanno dovuto sudare più di sette camicie avendo in vari momenti parecchio da ridire sulla gestione del fascicolo da parte della segretaria. Se la sua gestione dovesse continuare a essere super-blindata – in sostanza, lei che decide con altre tre persone – non è escluso che la gestione unitaria possa saltare (i riformisti sono in segreteria con Alessandro Alfieri).
E dulcis in fundo c’è la politica estera. Elly Schlein su Israele non è proprio chiarissima (lo ha notato ieri Emanuele Fiano all’Assemblea nazionale di Sinistra per Israele) e la presenza nelle liste di Strada e Tarquinio se la sono legata al dito.
In questi ultimi giorni sta crescendo la fiducia per un buon risultato elettorale, almeno sopra il venti per cento. E chi abbandonerebbe un Partito democratico in ripresa? Poi, com’è noto, talvolta le speranze non si traducono in realtà, e allora chissà quale film vedremo al Nazareno, forse quello di una diarchia Schlein-Gentiloni. È vero che all’abbraccio con Renzi non ci sta pensando nessuno, ma la firma di Elly al vendicativo referendum anti-Renzi è benzina sul fuoco.