Sulla riforma del premierato Giorgia Meloni fa il classico gioco delle tre carte, tutte truccate. La prima carta è la bugia più spudorata, che non diventerà vera a forza di ripeterla. Mi riferisco alla tesi secondo cui la riforma non toccherebbe in alcun modo i poteri del Capo dello Stato. Ripetuta peraltro da Meloni persino nel momento in cui la stessa maggioranza presenta un emendamento alla sua riforma per meglio specificare che il potere di decidere sull’eventuale scioglimento delle Camere, in caso di dimissioni o sfiducia al premier, spetta a lui e solo a lui. Oggi quel potere è del Capo dello Stato. Dunque non è vero che la riforma non tocchi i suoi poteri, anche perché, tolta la possibilità di decidere sullo scioglimento del Parlamento (l’unica vera arma a sua disposizione), verrebbero meno di fatto anche tutti gli altri.
La seconda carta, truccata anch’essa, è la legge elettorale, che Meloni continua non per niente a tenere coperta. E questo già dice tutto: si vuole mettere in Costituzione l’elezione diretta del premier e la sua sostanziale inamovibilità, ma non si dice con quale legge elettorale si pensa di garantire che quel premier abbia la maggioranza in parlamento e possa dunque effettivamente governare. Di conseguenza, delle due l’una: o si immagina un sistema in cui si torna a votare due, tre o anche trenta volte di seguito, nella speranza che dalle urne esca prima o poi una maggioranza a favore del premier (in entrambe le camere) oppure si pensa a una legge elettorale che quella maggioranza gliela assicuri in partenza. Come direbbe Totò, a prescindere.
In pratica, se anche alle scorse politiche il centrodestra avesse preso appena il 25 per cento dei voti, contro il 24,9 del centrosinistra, il 24,9 del Movimento 5 stelle e il 24,9 del Terzo Polo, con questo sistema si ritroverebbe comunque il 55 per centro dei seggi in Parlamento; mentre l’opposizione, con il 75 per cento dei voti, dovrebbe dividersi il restante 45 per cento dei seggi. I tanti super riformisti che invitano l’opposizione a dialogare sulla riforma, magari cominciando proprio dalla legge elettorale (come fa oggi Antonio Polito sul Corriere della sera), dovrebbero osservare bene l’uso che il governo Meloni sta facendo della maggioranza e dei poteri di cui già oggi dispone (per esempio alla Rai) e riflettere meglio sulle proprie proposte. L’idea di un ballottaggio che assicuri al vincitore, in un colpo solo, il capo del governo e la relativa maggioranza parlamentare non esiste in nessuna democrazia del mondo (né nel semipresidenzialismo francese né nel presidenzialismo americano, dove i presidenti eletti direttamente devono confrontarsi con maggioranze parlamentari imprevedibili e spesso opposte).
La terza carta di Meloni, sempre truccata, è proprio la rivendicazione di un’inesistente volontà di dialogo, nella speranza di dividere l’opposizione. Lo stesso vale per le riforme dell’Autonomia e della Giustizia, con cui la presidente del Consiglio cerca di tenere insieme Lega e Forza Italia, allargando possibilmente l’accordo anche ai centristi del fu Terzo Polo.
La destra sta cercando di costruire un sistema plebiscitario in cui il leader eletto direttamente vince e si porta a casa in un colpo solo, con la sua maggioranza, i famosi pieni poteri, sul modello ungherese. Non c’è principio di sussidiarietà o separazione delle carriere che valga una simile posta. A chiunque non capisca un concetto così elementare, alla base di qualunque idea di liberaldemocrazia, andrebbe tolta la patente di liberale.