A una mente non intossicata dai fumi del napalm giudiziario, che da trent’anni è la strategia di moralizzazione della vita pubblica – si veda con quali strabilianti risultati – e la prosecuzione con altri mezzi della guerra civile nell’Italia bipolare, le pagine dei giornali di ieri dedicati all’arresto di Giovanni Toti e degli altri protagonisti della nuova Lanternopoli chiariscono con buona evidenza che radicali restrizioni alla pubblicità degli atti di indagine e al ricorso alle misure cautelari sono qualcosa di più che buone riforme.
Sono inderogabili misure di ri-civilizzazione dell’Italia. Sono la differenza tra il diritto di vivere, di cui neppure una pena e figurarsi un’indagine dovrebbe privare i presunti cattivi e la licenza di uccidere che politici, giornalisti e magistrati, tutti presunti buoni, si riconoscono e si contendono, esercitandola tutti contro tutti, per superiori ragioni di giustizia.
L’Italia sta crepando, se già non è morta, esattamente di questa pretesa di salvezza procurata a forza di botte, ed è dilaniata proprio da questa paradossale unità attorno all’idea che per fare piazza pulita si debba procedere per le vie brevi delle manette e dello sputtanamento, prima di qualunque processo, cioè di qualunque giustizia.
Il tenorino del garantismo neo-melodico di stanza a Via Arenula, quando faceva accademia, pareva consapevole non solo della giustezza, ma dell’urgenza di questi interventi di riabilitazione civile, psicologica e cognitiva del popolo e delle sue élite, imbambolati dalla bellezza della ghigliottina preventiva e dall’orgasmo delle manette.
Infatti si dichiarava a favore del referendum radicale per limitare il ricorso alla carcerazione preventiva per pericolo di reiterazione del reato ai soli gravissimi delitti che comportino l’uso di armi o di altri mezzi di violenza personale. Inoltre si dichiarava favorevole alla tutela non della dignità, ma – ripetiamo – della vita fisica e psichica degli indagati dagli effetti definitivi dello spifferamento selettivo e pre-processuale di brogliacci, intercettazioni e veline.
Poi Carlo Nordio si è adeguato al situazionismo politico-giudiziario del suo partito e della sua maggioranza, cioè all’auto-sputtanamento del cosiddetto garantismo in una legislazione penale differenziata (buona coi buoni e cattiva coi cattivi) e galantomistica, cioè ignobilmente razzistica.
E lasciamo perdere la sinistra che era più garantista quando era comunista e da trent’anni pende dalle labbra dei Travaglio, dei Davigo, dei Gratteri e dei prefetti Mori del terzo millennio, cioè del non plus ultra della fascisteria ideologica in tema di giustizia, e quindi si è buttata sulle intercettazioni genovesi come i cocainomani sulla polverina che dà loro un’illusione di forza invincibile.
Da trent’anni la classe politica, giudiziaria e giornalistica ha insegnato agli italiani a credere che negli atti di indagine e nelle richieste dell’accusa c’è una verità più pura e evidente di quella a cui la difesa dei presunti colpevoli attenta, che il contraddittorio processuale corrompe e che la prescrizione vanifica. La conseguenza inevitabile è che dai lacerti delle ordinanze di custodia cautelare ciascuno distilla il succo che vuole, convinto pure sinceramente di bere dalla pura fonte della verità.
Del caso Toti, ovviamente, ormai tutti pensano di sapere tutto, invece nessuno sa e può ancora sapere niente, se non quello che pensano gli inquirenti e la domanda delle domande che nessuno si fa non è se Toti alla fine sarà riconosciuto colpevole o innocente, ma che senso abbia metterlo al gabbio per avere agio di far circolare le notizie che lo condannano davanti al tribunale del popolo, chiudere per indagine una legislatura regionale per dare il senso dell’abnormità del delitto e richiamare gli elettori al voto per fare pulizia di uno sporco che lorderà l’intera campagna elettorale, ma che poi al momento del processo, campa cavallo, si potrebbe pure scoprire che non c’è mai stato o che ha una gravità incommensurabile a quella delle conseguenze di una esecuzione capitale preventiva.