Ezio Mauro solleva su Repubblica la questione decisiva della politica di oggi, a partire da un editoriale dell’Economist in cui ci si domanda, dinanzi alla concreta possibilità che Donald Trump torni alla Casa Bianca, se l’America sia a prova di dittatore. Il punto, scrive Mauro, è che «l’ordine costituzionale è vulnerabile», negli Stati Uniti e anche in Italia.
Basterebbe a dimostrarlo, aggiungo io, il fatto che gli ammiratori di Trump siano oggi al vertice del governo (e anche, in parte, dell’opposizione), senza essersi mai sognati di dirgli una parola di critica nemmeno dinanzi al suo rifiuto di riconoscere la sconfitta elettorale del 2020 e al conseguente assalto al Parlamento del 6 gennaio 2021.
Secondo Mauro la differenza fondamentale tra Stati Uniti ed Europa è che «l’America ha timore di nominare la società» mentre «l’Europa è titubante quando deve definire la politica». Una divaricazione dei tabù conseguenza del fatto che l’America fa ancora i conti con l’eredità puritana (da cui deriva l’ossessione del politicamente corretto), mentre l’Europa non ha ancora elaborato l’esperienza dei totalitarismi del Novecento. Per questo motivo, secondo Mauro, noi europei «fatichiamo a considerare nella sua sostanza e nella sua portata il concetto di guerra, a valutare lo scandalo storico, politico e morale dell’invasione russa in Ucraina, a denunciare l’orrore del pogrom terroristico di Hamas il 7 ottobre e la tragedia degli ebrei ostaggi mentre condanniamo il massacro israeliano dei palestinesi a Gaza, a riformulare la nozione di giustizia nel fuoco dei due conflitti».
Avendo smarrito ogni criterio comune di distinzione tra Bene e Male, insomma, non riusciamo ad accettare la nostra responsabilità dinanzi alle crisi aperte nel mondo, e allo stesso modo rifiutiamo di vedere i pericoli che abbiamo in casa. Cioè quella tentazione che l’Economist chiama «l’impulso autoritario» e può spingere le destre a non accontentarsi del potere legittimo che si sono conquistate, e a cercarne quote supplementari modificando gli equilibri costituzionali. Tutto questo, scrive Mauro, «sta già avvenendo, mimetizzato dentro una lunga messa cantata che accompagna l’incedere della destra e lo circonda con una costante riduzione di senso, un’indifferenza di significato, un minimalismo di Stato, una spoliazione concettuale dei termini usati per definire la realtà, in modo che i comportamenti non abbiano la forza di interpellare i loro protagonisti, mentre nel senso comune si alza ogni giorno la soglia di ciò che è compatibile e si abbassa il limite dell’inaccettabile».
Parole che mi sentirei di sottoscrivere, purché accompagnate da una domanda: quanta parte di questo discorso potrebbe – anzi, dovrebbe – essere rivolta alla sinistra, e prima ancora agli intellettuali e alla stampa progressista, per il modo a dir poco corrivo con cui hanno accompagnato l’incedere del populismo grillino, circondandolo di una costante riduzione di senso, un’indifferenza di significato, una spoliazione concettuale dei termini usati per definire la realtà, in modo che i comportamenti non avessero la forza di interpellare i loro protagonisti, mentre nel senso comune si alzava ogni giorno la soglia di ciò che era compatibile e si abbassava il limite dell’inaccettabile?