In tempi pericolosi come quelli che stiamo vivendo, scrive l’Economist nel suo ultimo numero, l’Unione europea ha bisogno di una leadership coerente e di tenere gli estremisti lontano dal potere. E questo dipenderà dalle scelte di tre donne: la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, la presidente del Consiglio italiana, Giorgia Meloni, e la principale leader populista francese, Marine Le Pen. Per farla breve, il settimanale si schiera nettamente a favore di una riconferma di Von der Leyen, e soprattutto della sua strategia di apertura verso Meloni, al principale scopo di dividere l’estrema destra e tenere Le Pen ai margini del potere.
Si tratta di una posizione molto simile a quella sostenuta due giorni fa da Mariam Lau su Die Zeit, a partire da un’analisi della spaccatura provocata dalle parole dello Spitzenkandidat di Afd all’interno del gruppo di Identità e democrazia: da un lato l’estrema destra vecchio stile, con i suoi dottor Stranamore e i loro continui riferimenti al Terzo Reich, la banalizzazione dell’Olocausto e tutto il resto del repertorio; dall’altro la cosiddetta nuova destra, «un po’ imbarazzata da questi vecchi parenti», cui si sente idealmente vicina, ma con cui non vorrebbe farsi vedere in giro. Secondo il settimanale tedesco questa nuova destra sarebbe figlia soprattutto di filosofi francesi come Alain de Benoist, che dai movimenti di sinistra degli anni Settanta hanno tratto un’importante lezione: «L’egemonia si ottiene prima nella cultura, alla radio, nelle canzoni, nel modo di vestire e di scherzare, al cinema, e solo dopo in Parlamento. Quest’ambito lo chiamano “metapolitica”». Un esempio di tale metapolitica sarebbe quello che è successo pochi giorni fa sull’isola di Sylt, e prima in tante altre discoteche, feste e salotti tedeschi, e cioè che una canzone razzista (Deutschland den Deutschen, Ausländer raus – La Germania ai tedeschi, fuori gli stranieri) sia diventata un «divertimento sovversivo con Aperol Spritz».
Non penso sia necessario segnalare al lettore italiano la derivazione gramsciana di queste riflessioni, e tantomeno il parallelo con quanto accade da noi. Con la non piccola differenza che da noi la cosiddetta nuova destra, ammesso che sia nuova, può condurre i suoi esperimenti egemonici dal governo, con i risultati che abbiamo sotto gli occhi, e che potranno presto ammirare anche i giornalisti tedeschi, ad esempio, alla Buchmesse di Francoforte (per chi si fosse perso pure questa, consiglio la ricostruzione di Nicola Lagioia, che mi sembra assai convincente, anche perché conferma la mia, ovviamente). In ogni caso, prosegue l’articolo della Zeit, «per questa nuova destra il nemico numero uno non è la sinistra, ma piuttosto il liberalismo, la globalizzazione, la “grande sostituzione”, come chiama l’immigrazione irregolare. Per Goebbels semplicemente non ha tempo».
In Francia, Marine Le Pen vuole diventare presidente, e per questo ha bisogno del voto moderato, proprio come la sua «nuova amica» Giorgia Meloni: se si mettessero insieme, nel futuro parlamento europeo potrebbero guidare un gruppo di una certa consistenza. Ma mentre socialdemocratici e liberali alzano un muro e minacciano di togliere il sostegno a Von der Leyen per le sue aperture a Meloni, la presidente della Commissione e il suo partito (i popolari) vedono invece un’occasione. E qui l’analisi del settimanale tedesco converge con quella dell’Economist, secondo il quale sarebbe miope tagliare fuori la leader di Fratelli d’Italia, che si è dimostrata finora un capo di governo «pragmatico» (specialmente sull’Ucraina), anche perché «raggiungere un accordo con lei potrebbe avere un ulteriore vantaggio: dividere la destra populista tra i suoi elementi più moderati ed estremi». Evidentemente, molto dipenderà dall’esito del voto e dagli equilibri nel nuovo parlamento. In tempi terribili come quelli che abbiamo davanti, è difficile dire quale sarà domani il male minore. Ma proprio all’indomani della condanna di Donald Trump, che in Italia continua a godere del convinto sostegno dell’intero centrodestra (con qualche distinguo della sola Forza Italia), è lecito domandarsi se anche liberali e centristi europei non dovrebbero riflettere meglio sul concetto di egemonia, e sulla differenza tra dividere il nemico e consegnarsi a lui.
Tonino Di Pietro evviva
Primo (sul piano generale): «Una volta imboccata la strada del sistema accusatorio con il nuovo codice di procedura penale non c’è dubbio che debba esserci un giudice terzo che non ha nulla a che spartire né con il pm né con i difensori. È previsto dell’articolo 111 della Costituzione e bisogna rispettarlo senza lagnarsi in continuazione».
Secondo (riguardo all’argomento secondo cui il pm oggi cerca anche prove a favore della difesa): «Così dovrebbe essere ma spesso non è così. Ed è ipocrita non volerlo ammettere. Le indagini, per definizione, si fanno per trovare i colpevoli perché c’è stato un reato. Piaccia o non piaccia (e a me non piace), spesso invece assistiamo a indagini a strascico su questo o quel personaggio per cercare qualcosa di cui incolparlo mentre si dovrebbe procedere solo dopo che si ha la certezza che un reato è stato commesso».
Terzo (riguardo l’Alta corte disciplinare): «La giustizia domestica non dà garanzie. Un giorno io favorisco te e un altro tu favorisci me».
Quarto (sul sorteggio del Csm): «Meglio il sorteggio che il voto di scambio! Cosa avveniva al Csm ce l’ha spiegato l’ex presidente Anm Palamara. Semplicemente perché lui è stato intercettato. (…) L’idea stessa che vi siano delle “correnti” nella magistratura fa a cazzotti con l’immagine di terzietà e indipendenza che la Costituzione ha assegnato ai magistrati».
Così oggi, intervistato dal Corriere della sera a proposito della riforma della giustizia, Antonio Di Pietro. Signori della giuria, non ho altre domande.