Bambino negli anni Ottanta, mi portarono una volta, non saprei bene perché, a vedere una registrazione del “Pranzo è servito”. Lo studio era dalle parti di Piazzale Clodio a Roma o forse era la Dear, sulla Nomentana. La scenografia sembrava un gigantesco tiro a segno del Luna-Park, col tovaglione a quadretti, il disco delle portate, le posate, i concorrenti dietro una postazione a forma di pila di piatti. Corrado era impeccabile. Elegantissimo. Brillante come quei vecchi attori di Hollywood che finivano a fare qualche spot ma non perdevano mai l’aplomb. Terminata la puntata si fermò a chiacchierare col pubblico. Tutti gli chiedevano l’autografo. Lui assecondava, scherzava. Per me era solo il presentatore del “Pranzo è servito”, ma per gli adulti lì dentro era un pezzo di storia d’Italia. Il Corrado di “Canzonissima”, “Fantastico”, “L’amico del giaguaro”, “Un disco per l’estate”, il Corrado dell’Eiar, della radio alleata e di “Bellissima” di Visconti, dove Corrado fa sé stesso e sulle note dell’“Elisir d’amore” di Donizetti annuncia il casting per cercare “una graziosa bambina italiana”. Corrado aveva lanciato Alberto Sordi. Aveva avuto tra gli autori gente come Ettore Scola. Aveva presentato la prima trasmissione televisiva in assoluto, ancora sperimentale, alla Triennale di Milano, nel 1949. Trent’anni dopo si era inventato “Domenica In” e “La Corrida”, padre e madre di tutti i talent-show, quando ancora non si prendevano sul serio e il concorrente non diceva “è stato un bellissimo percorso”. Nato nel 1924, come Mike Bongiorno, Corrado è oggi un po’ dimenticato. Non avrà il suo centenario e non ha neanche uno studio o un centro televisivo dedicato, ma una piccola strada a Castel Giubileo, periferia di Roma Est, dove non passa nessuno.
Mike Bongiorno è invece festeggiato in questi giorni come un padre della patria: mostre, eventi, libri, una targa in via Giovanni Da Procida, un francobollo e naturalmente un biopic Rai in preparazione sulla vita avventurosa del giovane Mike, tra una New York degli anni Trenta ricreata in Bulgaria e gli uffici milanesi della Rai ricostruiti al Teatro Gobetti di Torino. Una sacrosanta rivincita per lui che non riuscì a diventare senatore a vita, come gli aveva promesso Berlusconi (nel frattempo, con le prime manovre per il premierato, i senatori a vita si avviano a scomparire, e pazienza per qualche conduttore che magari ci faceva ancora un pensierino). Ci fu all’epoca anche un appello accorato del Foglio: “Uno scranno di Palazzo Madama sia riservato a Mike Bongiorno, presentatore, primo volto della tivù di Stato e prima star di quella privata, padre della lingua, figlio di emigranti, fuggitivo in montagna coi partigiani, prigioniero a San Vittore con Montanelli, rinchiuso nei lager, amato da Carlo Levi, testimonial di grappe e prosciutti e testimone della Repubblica”. Ma si era nel climax dell’antiberlusconismo più sfrenato, coi girotondi intorno al Quirinale. Mike Bongiorno insieme a Bobbio, De Martino, Carlo Bo, Ferruccio Parri e Rita Levi Montalcini, faceva sghignazzare la sinistra. Gli fu preferito Mario Luzi, nominato poco dopo, evocando anche con una certa ineleganza per il povero Mike la superiorità della poesia ermetica sui prosciutti Rovagnati, e va bene, certo, grazie.
Mike Bongiorno però un padre della patria lo è stato davvero. Inventata la tv, bisognava inventare il presentatore, e lui era il personaggio giusto al posto giusto nel momento giusto. Mettere Mike in Rai fu una grande idea, come oggi Andreatta alla testa di Netflix, perché tv e America erano all’epoca sinonimi minacciosi. La televisione era lo spauracchio di un consumismo invasivo, il segno di un american way of life che avrebbe cambiato abitudini, mentalità, comportamenti (“farete lo stesso degli americani, quando l’avrete in casa non resisterete per molto tempo e se l’avranno i vostri vicini vorrete averla anche voi”, tuonava Prezzolini dagli States). Il Mike di “Lascia o raddoppia?” garantisce la fusione e l’incontro tra due culture. Tra gli elementi tipicamente americani (l’abilità individuale, la scalata alla ricchezza, la forza della volontà) e le attitudini più tipicamente italiane (speranza nella fortuna, arte di arrangiarsi, vanità, esibizionismo). Di Mike Bongiorno a Berlusconi piaceva tutto. Soprattutto questo fatto di essere un simbolo del boom economico, della rinascita, dell’ottimismo americano, insomma di quello scatto fulmineo dalla miseria al benessere che la tv intercettava, raccontava, amplificava. Con buona pace di Umberto Eco, il fenomeno Mike Bongiorno non era archiviabile solo alla voce “mediocrità”. La fortuna di quel pezzo, ritirato fuori in tutti gli articoli su Mike di questa settimana, è in gran parte nel titolo. Scomodare la parola “fenomenologia” per un personaggio tv era una gran trovata, e “Considerazioni su Mike Bongiorno” forse l’avremmo dimenticato presto. Però prima di Eco c’era arrivato già Luciano Bianciardi, che raccontava in un fulminante ritratto su “L’Avanti” la trasformazione di Mike Bongiorno da americano a italiano medio, un italiano medio né colto, né popolaresco, una sintesi non inquadrabile nei tratti locali e troppo romani di Mario Riva, e neanche nello humour di Enzo Tortora, “così goliardicamente colto”, diceva Bianciardi.
Ventisei anni in Rai, ventidue con Silvio Berlusconi, Mike Bongiorno ha aperto la lunga saga dei conduttori-presentatori Rai. Tra i momenti indimenticabili che ogni tanto “Techetecheté” o YouTube ci ripropone c’è quella puntata di “Sabato sera” con Mina in mezzo a Corrado, Enzo Tortora, Mike Bongiorno e Pippo Baudo molto giovane ma già con un complicatissimo riporto. E’ il nostro Monte Rushmore. L’apice di una tv che stava però già diventando un’altra cosa. Scriveva Montanelli negli anni Settanta: “Per trovare un presentatore che sapesse rivolgersi al pubblico con disinvolta familiarità, senza impappinarsi o assumere pose solenni, la Rai degli inizi dovette andare a cercarselo in America. Oggi però li raccattano per strada dove il passante intervistato a bruciapelo afferra il microfono e ci snocciola un discorsino che bene o male sta in piedi anche senza bisogno di essere letto o recitato”.
E qui sta anche la differenza, sottilissima ma volendo sostanziale, tra presentatore e conduttore. Legati soprattutto al varietà, i presentatori si mettevano al servizio del programma. Coi conduttori può accadere il contrario. Venuto su dal giornalismo, il conduttore rappresenta sé stesso. E’ lui lo spettacolo. “Ieri ho visto Fazio”, “stasera c’è Santoro da Costanzo”. I conduttori diventano così via via intercambiabili ai politici (e anche viceversa). Si mettono alla testa di movimenti d’opinione. Sono alfieri della società civile. Capipopolo. Nasce la figura, inedita ai tempi di Mike e Corrado, del conduttore-martire, antagonista, resistente, non di rado censurato o epurato. La scopre e se la inventa Michele Santoro, agitatore delle piazze televisive di fine anni Ottanta e santone dell’indignazione. Da lì in poi una tentazione irresistibile. Ecco Massimo Giletti che molla soubrette, balletti, Natali con Frate Indovino e voci per Padre Pio, si scaraventa anema e core sulla criminalità organizzata, ma finisce contro il solito muro di gomma, “l’Italia non è pronta per certe verità”. Ecco Serena Bortone, catapultata dai rotocalchi del dopopranzo alla difesa del 25 aprile, madrina dell’antifascismo militante e televisivo, censurata dai vertici Rai, quindi sparata in copertina su “Vanity Fair”. Naturalmente la Rai tolkeniana, già di per sé un’occasione ghiotta per l’aspirante martire, ci mette anche molto del suo. Ma la figura del conduttore che mescola insieme le ragioni dello show e l’indignazione della piazza è un salto in avanti rispetto alle expertise classiche del mestiere: parlantina sciolta, ritmo, saper magari ballare, canticchiare, suonare il piano come Pippo Baudo, eccetera. Dopo tangentopoli, il conduttore sa che può diventare anche condottiero. Pacifico e cardinalizio à la Fazio, o sfegatato à la Santoro, o sguaiato e mezzo matto à la Funari.
Ma anche nello show più classicamente inteso, man mano che gli agenti prendevano potere, presentatori e conduttori finivano per diventare l’attrazione principale e l’unica ragione di esistere del programma. “Domenica In” è Mara Venier. “Porta a porta” è Bruno Vespa. “Che tempo che fa” è Fabio Fazio. Le epoche televisive in Rai si contano su cicli e ricambi dei grandi presentatori-conduttori. Mike Bongiorno e l’èra dei pionieri, la lunga stagione del baudismo, come la Democrazia Cristiana, la neotelevisione, gli anni Novanta, il centrosinistra à la Fazio, il conduttore bravo ragazzo Frizzi, l’antagonista-martire Santoro, il portavoce delle istituzioni, Bruno Vespa, le “sacerdotesse del dolore”, Alda D’Eusanio e la Carrà col groppo in gola di “Carramba”, e poi Carlo Conti, Amadeus, Milly Carlucci, Mara Venier, i tentativi di ricambio generazionale che da noi sono lentissimi e vanno spesso a vuoto. Si invecchia restando in quota “giovani”. Anche in Rai l’ascensore sociale non va proprio benissimo. Grandi speranze al momento riposte in Stefano De Martino. Vedremo.
Quanto a Lundini, ha il vantaggio di essere già vecchio. Un Nino Frassica per la Instagram generation, subito smarcatosi dal problema di essere giovane, vestendosi appunto come un vecchio presentatore della tv anni Ottanta. Lundini riparte dal “bravo presentatore” di “Indietro tutta”. Autoproclamatosi tale, il “bravo presentatore” riusciva a fare tutto, come i grandi anchorman americani, ma faceva tutto male. Quel personaggio di Frassica anticipava la fluviale retorica del “grande professionista”, che inizia già con Baudo, e dilaga poi coi Carlo Conti, Amadeus, Bonolis. Mentre di là, al “Drive In” di Antonio Ricci, il conduttore saltava direttamente per aria. Ci si auto-organizzava in un diluvio frenetico di sketch e gag e parodie anche perfide, liquidando i modi compassati, la lentezza, le ritualità antiche e democristiane del vecchio presentatore col frac. Il conduttore rassicurante, immutabile, sintonizzato su una tv pacata, ordinata, mai irriverente anche quando sguazza nell’ovvio e nel trash, è una figura che da Baudo rotola fino a Carlo Conti, passando da Fabrizio Frizzi, e che mescolata poi con due o tre spruzzate di “ceto medio riflessivo” ben shakerato sfocia in quella particolare sfumatura di rassicurazione che è la conduzione di Fabio Fazio. Cardinale del centrosinistra televisivo, arconte del modernariato pop e democratico, Fabio Fazio è immutabile, come Vespa, come Baudo. E anche se lo si incontra magari dopo tanto tempo sul Nove lo si troverà identico, illudendoci così anche noi di non essere invecchiati. Però rispetto a Baudo, Vespa o Carlo Conti, Fazio trae forza da un movimento d’opinione che s’indentifica e si coalizza nei suoi stessi gusti culturali, oramai da quasi una trentina d’anni. Un middlebrow feltrinellizzato e fidelizzato. Una galleria di santini laici, dalle figure Panini ai libri di David Grossman, in cui ogni cosa è constatata, celebrata, non discussa, tantomeno confutata (come le domande di Fazio che sempre cadono lì, a metà tra la constatazione, il complimento e l’affermazione con due dita di punto interrogativo). “Che tempo che fa” è diventato col tempo un “Porta a porta” ben mimetizzato, la “terza camera” delle professoresse democratiche. Ma con la convinzione di essere nel giusto, dentro un tempio laico, in un’agorà di buone maniere, buone letture e visite ai musei la domenica. “Noi siamo diventati di sinistra perché avevamo professori di destra”, diceva Antonio Ricci, “Fazio è di sinistra perché aveva professori di sinistra”.
Il repertorio di facce, gesti, intonazioni, tormentoni dei presentatori padri della patria, Mike Bongiorno, Baudo, Corrado, era un tempo un cavallo di battaglia di comici e imitatori. Fiorello è stato l’ultimo di una serie infinita di imitatori di Mike, tra cui anche Fabio Fazio. L’imitazione di Amadeus e Carlo Conti si porta invece molto meno (c’era un Amadeus di Max Tortora e poco altro). Un po’ sarà la perduta centralità della tv, d’accordo. Imitare Baudo era rovesciare il sacro, perculare la tv nella sua massima opulenza e ovvietà. Un po’ però è anche lo stile dei nuovi Baudo per millenials. Quel manierismo senza sbavature, meccanico, replicabile in serie. Imitare Carlo Conti è complicato perché Carlo Conti sembra già l’imitazione impalpabile di un presentatore anonimo. Non ci sono tratti fisici o verbali che si prestino alla caricatura, a parte battute scontate sulla sua “black face”. Siamo ben oltre l’everyday man che Eco intravide in Mike Bongiorno. “Carlo Conti ha un aspetto rassicurante, ricorda un gasista, l’addetto al controllo dei contatori del metano: compìto, educato, abbigliato in modo corretto” scriveva Vittorio Feltri in un perfido ritratto del prossimo presentatore di Sanremo, “è una persona raccomandabile cui affideresti volentieri il cane”.