Sul Lametino, un mio caro amico, il prof. Francesco Vescio, pubblica da diversi anni illuminanti articoli storici sulla Calabria. Nell’ultimo che ho letto (La Calabria dopo l’Unità: vita politica e riforme amministrative) delinea gli aspetti più rilevanti dei mutamenti politici ed amministrativi verificatesi nella Regione dopo l’Unità, analizzando la portata storica del far parte di uno Stato costituzionale in cui i cittadini partecipano, tramite i propri rappresentanti eletti, al governo del Paese.
Dopo aver descritto le prerogative e le funzioni degli organi statuali: Re, Governo e Parlamento (il senato, scelto com’era dal re, costituiva un’assemblea di tendenze conservatrici fatta di ex deputati e di altri cittadini illustri; le misure di carattere finanziario dovevano essere sottoposte in primo luogo alla camera bassa, e per quanto nelle altre materie le due camere avessero eguali poteri, questo diritto d’iniziativa nel campo finanziario diede ben presto all’assemblea elettiva una prevalenza rilevante) affronta le tematiche riguardanti particolarmente il Meridione e più dettagliatamente la situazione politica ed amministrativa calabrese. Nel giro di due anni, dal marzo del 1859 al giugno del 1861, sorse in Europa uno Stato nuovo. Si estendeva su 259.320 chilometri quadrati ed era popolato da 21 milioni e 770.000 cittadini, con una media di 85 abitanti per chilometro quadrato. Viveva prevalentemente di ciò che produce la terra: gli agricoltori erano 8 milioni, i lavoratori dell’industria e dell’artigiano 3. Non era ricco ma credeva di esserlo perché è convinto che la povertà delle sue regioni più destituite sia dovuta esclusivamente alla neghittosa insipienza dei tiranni che le avevano governate. La libertà e l’unità renderanno al paese le ricchezze perdute, i beni per tanti secoli nascosti. Questa convinzione non fu la sola falsa certezza con cui il paese inizia la sua storia unitaria”.
“…Alla metà dell’inverno del 1861, non soltanto l’intero esercito meridionale garibaldino era stato disciolto ed allontanato dal Mezzogiorno, ma anche gli ultimi corpi volontari erano stati mandati a casa. Al termine di questo breve e travagliato periodo, il governo cavouriano e il partito moderato avevano indubbiamente conseguito un successo politico essenziale, eliminando praticamente il pericoloso dualismo militare insieme con la dittatura garibaldina. Questo successo influì su tutta la politica nazionale, di cui i moderati poterono assicurarsi la direzione esclusiva per lunghi anni, e determinò anche per buona parte, il carattere conservatore e chiuso dell’apparato statale unitario, strumento indispensabile della larvata dittatura moderata. Però quel successo venne scontato nel Mezzogiorno con una serie di conseguenze di estrema gravità. I moderati, quantunque decisi ad abbattere la monarchia borbonica, erano discesi nel Mezzogiorno con finalità rigorosamente conservatrici sul terreno politico e sociale”.
“Le elezioni per la Camera rappresentarono un cambio storico per le strategie di riorganizzazione dei gruppi politici meridionali, sancendone l’integrazione nelle correnti politiche nazionali. Nelle liste si raccolsero intorno alla componente moderata cavouriana e alla Sinistra garibaldina, con all’interno l’area mazziniana. La mappa degli eletti fotografò lo schieramento delle comunità politiche nei territori, consacrò la Destra come forza dominante e la Sinistra come soggetto, quasi unico dell’opposizione (l’Estrema Sinistra ottenne pochi seggi, quasi tutti al Sud). I gruppi meridionali fecero una scelta definitiva, aggregandosi ai partiti nazionali, anche se permanevano largamente particolarismi di natura personale, posizioni autonomistiche, interessi contrastanti, condizionate dalle appartenenze territoriali, ideologiche o clientelari”.
“ Le elezioni del gennaio ’61 ( su una popolazione di 22milioni di abitanti l’elettorato [ Va precisato che avevano diritto al voto i maschi in base al censo, ossia con un reddito elevato, N.d.R.] era di appena mezzo milione, dei quali 300.000 si recarono alle urne) portarono in parlamento a Cosenza 6 moderati e 4 democratici ; a Catanzaro 6 moderati e 2 democratici; a Reggio 5 moderati e due democratici […] Se i più moderati, tenacemente radicati, come ha ben messo in evidenza Vittorio Cappelli, nei contesti rurali d’origine, mal si muovevano nel più vasto scenario nazionale, non pochi democratici di formazione per lo più letteraria e romantica, erano assolutamente incapaci di comprendere nella sua effettualità la situazione della società meridionale e calabrese […] Fu così – ma è considerazione applicabile all’intero Mezzogiorno- che i diversi tentativi di lasciare alla classe dirigente locale ‘ la responsabilità di riordinare il paese’ e di prendere autonome iniziative in materia di governo e finanze comunali fallirono tutti miseramente”.
La situazione politica dopo l’unificazione viene dunque cosi’ descritta: “La delusione e la rassegnazione portarono come ad una spaccatura nel paese. Da una parte la gran massa della popolazione indifferente se non ostile alla vita politica, dall’altra una minoranza che si interessa di politica solo per il potere.
La borghesia si dissolve come partito, né destra né sinistra, ma personalismi, ambizioni e lotta personale, non contrasti di idee o di programmi, perché questi si equivalgono: tutti al momento delle elezioni promettevano mari e monti, con la sicurezza o l’impossibilità di mantenerli.
Mentre la grossa e media borghesia aderiva al nuovo ordine di cose e se ne avvantaggiava, facendo causa comune con tutti gli elementi di ordine e di conservazione, la piccola borghesia, scontenta, senza ideali, faceva opposizione negativa, contribuendo ad aumentare la sfiducia e lo scontento nella popolazione, salvo a lasciarsi corrompere al momento opportuno. Si generava il conformismo, l’apatia, la sfiducia in tutto e in tutti. Al momento delle elezioni, il candidato governativo raccoglieva voti dai pochi non analfabeti, con un litro di vino e meno di trenta denari.
I cafoni vedevano agli stessi posti i galantuomini di sempre: la situazione si andava sempre più aggravando. Pagavano a caro prezzo la libertà di morire di fame. La libertà senza la giustizia sociale non aveva alcun valore perché i deboli, i miseri, non potevano, come non possono, essere o sentirsi liberi. È vero che il problema non era solo calabrese, ma in Calabria data la struttura sociale preesistente, la libertà aveva il sapore di una beffa. Senza uno stato di diritto, il ricco e il potente ha sempre ragione. Né scuole, né acqua, né fognature, né ospedali, né cimiteri, né posti di lavoro. Il risparmio emigrava verso contrade più favorite. Il commercio e le poche industrie esistenti erano affogati dalla concorrenza dei più provveduti commercianti ed industriali del Nord” .
Fin qui il prof. Vescio, illustrando la situazione politica calabrese dopo l’unificazione. Non sono uno storico, ma quel che mi colpisce dopo 163 anni e’ l’attualita’, il tempo sembra essersi fermato in Calabria. L’unica variabile e’ stata la sostituzione del brigantaggio con la ‘ndrangheta ma la mancanza di uno stato di diritto, la gran massa della popolazione indifferente se non ostile alla vita politica, mentre una minoranza si interessa di politica solo per il potere, sono fenomeni che osserviamo qui ed ora. Allora si pensava che la povertà delle sue regioni meridionali fosse dovuta esclusivamente alla neghittosa insipienza dei tiranni che le avevano governate; oggi all’euro, all’Europa matrigna e alla Merkel.
La borghesia ieri come oggi e’ evaporata come partito (destra e sinistra non hanno piu’ alcun significato), vive di personalismi, ambizioni e lotta personale, non ci sono contrasti di idee ma equivalenza dei programmi, tutti al momento delle elezioni promettono mari e monti, con la sicurezza o l’impossibilità di mantenerli. Mentre la grossa e media borghesia aderisce sempre ai partiti che sono andati al governo e ne trae vantaggio, la piccola borghesia, scontenta, senza ideali, fa opposizione negativa, contribuendo ad aumentare la sfiducia e lo scontento nella popolazione (antipolitica la chiamiamo oggi), salvo a lasciarsi corrompere al momento opportuno.
In Calabria dunque, per capirci e per concludere, gli exploit che abbiamo visto di leghisti e cinquestelle si ricollegano a quel ribellismo plebeo che il mezzogiorno ha conosciuto sin dalla Unita’ d’Italia, mentre quella che io chiamo “borghesia mafiosa” ovvero la ‘ndrangheta e i ceti sociali che controlla, resta sempre filogovernativa, legandosi via via ai partiti che vanno al potere a livello nazionale (Berlusconi, il pd, ora i meloniani).
Infine, chi siano oggi in Calabria quei ” non pochi democratici di formazione per lo più letteraria e romantica, assolutamente incapaci di comprendere nella sua effettualità la situazione della società meridionale e calabrese”, e’ un indovinello che lascio alle menti piu’ raffinate.