Nel 1985, quando il ministro della Giustizia Kobie Coetsee comincia a consentire ad autorevoli visitatori internazionali di incontrare Mandela in carcere per verificarne le condizioni, lui capisce che il vento sta cambiando ed è tempo di prendere l’iniziativa. Ma come farlo? Accordarsi con Tambo che si trova all’estero richiederebbe mesi, parlarne con i suoi compagni in carcere farebbe fallire qualunque tentativo prima ancora di iniziare. Fu allora che Mandela scrisse segretamente una lettera a Coetsee che, dopo qualche mese, ebbe dal Grande Coccodrillo (il presidente Botha) l’autorizzazione ad avviare colloqui segreti. Mandela era in ospedale e Coetsee andò a trovarlo. Tecnicamente fu quello l’inizio di una trattativa durata ben cinque anni; solo nel 1988 si costituì un’apposita commissione speciale. L’anno dopo, a spianare la strada, sarebbero arrivate la caduta del muro di Berlino e la fine della Guerra fredda. Il prigioniero 466/64 è stato liberato nel 1990.
In partenza, la negoziazione fu vista, da entrambe le parti del tavolo, come possibile tradimento. Mandela si giocava la reputazione (e il Grande Coccodrillo lo sapeva, era nelle loro mani, proprio questo lo rendeva affidabile); per smarcarsi, il prigioniero chiese al suo avvocato di informare Oliver Tambo e assicurare l’Anc che non sarebbe andato avanti senza la loro approvazione. Fuori c’era soltanto violenza: nel 1986 furono bombardate le basi dell’Anc in Zambia, Zimbabwe, Botswana; nel paese vigeva lo stato di emergenza. Il regime offriva a Mandela la libertà in cambio della rinuncia incondizionata alla lotta armata; lui chiedeva la fine dell’apartheid e la liberazioni di tutti i prigionieri politici come gesto unilaterale, come pre-condizione per trattare. Come fecero a uscirne?
Mnookin fa notare che Mandela sapeva distinguere e scegliersi gli interlocutori: si rendeva conto che non avrebbe potuto concludere con Botha e solo quando entrò in scena de Klerk, che poi ebbe con lui il Nobel per la pace, capì di aver trovato un uomo con il quale “we could do business with”.
Un buon negoziatore sa distinguere il Diavolo – in questo caso il regime segregazionista – dalla paura: i bianchi erano pochi e temevano di essere spazzati via dalla forza dei numeri.
Sulla democrazia parlamentare Mandela fu irremovibile, una testa-un voto, senza alcun possibile “diritto di gruppo”: vinse la partita in politica in cambio di quella sull’assetto economico, con la rinuncia alle nazionalizzazioni, la protezione della proprietà privata, dei posti di lavoro e delle pensioni dei dipendenti pubblici. Il compromesso per avviare la pacificazione fu questo.
Stringere questo genere di patti, commenta Mnookin, soprattutto in caso di conflitti etnici violenti, richiede un’abilità enorme. Bisogna giocare sul tavolo della trattativa e, insieme, intrecciare fili alle proprie spalle, per non spaccare il proprio fronte. Un buon negoziatore sa tenere sempre aperta la prospettiva, non importa quanto costa in termini emotivi. A Madiba costò moltissimo. Noi lo ricordiamo sorridente, in eleganti camicie colorate. Jonny Steinberg ha raccontato a Michele Farina che in realtà era un uomo cupo, parlava pochissimo. Qualcosa di lui, il dolore e la rabbia, era rimasto pietrificato a Robben Island.