E quali sarebbero i valori “fondanti” da “ri-fondare”? Il vaffa, l’uno vale uno, la sostituzione della democrazia parlamentare con la Rete di Casaleggio, i deputati scelti per sorteggio invece di elezioni, la cretinocrazia del popolo contro l’élite, il Parlamento scatola di sardine?
Il ritorno a Grillo e alle violenze del vaffa è come nella Lega “il celodurismo delle origini”, come in Forza Italia “lo spirito del‘94”, il mito liberale della discesa in campo di Berlusconi che alla trucida gens nova dei “patonzolari” Lele Mora, Tarantini, Lavitola, Signorini e Santanché contrapponeva l’epoca dei professori Colletti, Vertone, Melograni, Rebuffa e Pera.
Allo stesso modo oggi che il Movimento 5stelle affoga nel 9,99 per cento di Giuseppe Conte e dei suoi ectoplasmi, la nostalgia di Grillo diventa la cura palliativa della sconfitta. Sicuramente fu un orrore l’epoca di Casaleggio senior e dei professori-paperini come Becchi e quel tal Peter Jospeh, le scie chimiche, i microchip sotto la pelle, e “il tumore si cura con il limone e la cacca di capra” e “l’aids è la più grande bufala del secolo”, ma si capisce che tutto questo possa essere rimpianto come la fantasia al potere che cambiò l’Italia rispetto alla lagna terminale dell’ennesimo trasformismo perdente di Conte annunziato dal finto “dilemma” delle dimissioni: “Forse me ne vado, ma forse non adesso”.
E come le muffe che diventano penicillina, sembrano il bel tempo andato pure le canagliate contro Napolitano o Rita Levi Montalcini o lo stesso Stefano Rodotà che pure era stato il fiore di purezza che Grillo aveva candidato alla presidenza della Repubblica. È vero che lo stesso Grillo sembra consapevole che il passato non può essere una terapia, visto che nel suo blog scrive a grossi caratteri: «L’Italia ha messo un’elica davanti per correre all’indietro». Ma si capisce che Toninelli, Di Battista, Virginia Raggi e tutti gli altri ex squinternati d’assalto, tutti “i diciannovisti” di Grillo e Casaleggio-senior siano riacciuffati alla gola dal “come eravamo”. Alibi e contraffazione, la sceneggiata di Conte “mi dimetterò, statene sicuri, ma per rafforzare il Movimento e non per indebolirlo…” accende la lucciola pasoliniana di quel Dario Fo che riuscì a convincere molti elettori di sinistra che le sparate di Grillo, il suo parlare per eccessi, per iperboli, sberleffi e anche per insulti e minacce di ogni genere, era in fondo teatro, opera buffa, metafora, era il linguaggio smodato e maleducato dell’arte comica che diventava progetto politico.
È difficile negare che ci sia una triste grandezza in Beppe Grillo, che è diventato irrilevante pur avendo vinto e stravinto sino a fare del suo movimento il partito di maggioranza relativa. Grillo è insignificante pur avendo cambiato il nostro Paese, e non è certo il primo italiano che si perde nella sua stessa vittoria come già accadde a Martinazzoli, che chiuse la Dc e fondò il Partito popolare; a Mario Segni, che seppellì la Prima Repubblica; a Umberto Bossi, che creò la Lega e soprattutto ad Achille Occhetto che tra le lacrime salvò la sinistra italiana dal comune destino mondiale di morire per comunismo. Ed è un facile gioco di somiglianze che mi ha spesso tentato sovrapporre il faccione di Grillo a quello di Occhetto (e viceversa), entrambi ispidi, irsuti e ruvidi, con gli stessi occhi cadenti e lo stesso sghignazzo dolente, capelli e pensieri impettinabili che sfuggono da tutte le parti.
Giuseppe Conte invece esordì nel Movimento truccando il curriculum di professore. Con la proverbiale “quasità”, che ha perfezionato l’ambiguità e la doppiezza italiane, ha fatto il presidente del Consiglio, prima con la destra e poi con la sinistra, dichiarando di non stare né con la destra né con la sinistra. Con cinismo ha fatto fuori tutti i rivali interni e ha zittito lo stesso Grillo assegnandogli un lauto stipendio. Si è alleato con tutti e ha tradito tutti gli alleati, rilanciando l’astruso linguaggio del non dire per dire e del dire per non dire. E ora che gli elettori di sinistra non gli hanno creduto ed è stato sconfitto alle elezioni, in un tripudio di “vai avanti”, “torna alle origini”, “non mollare”, Conte riflette, temporeggia, minaccia le dimissioni e le consegna al giornale di riferimento lasciandosi processare dal suo Marco Travaglio che è il solo che lo capisce: «La tentazione di Conte di passare la mano è comprensibile: sbattersi tanto per raccogliere così poco è frustrante e restare dopo tale batosta può sembrare avvitarsi alla poltrona. Ma, senza di lui, il M5S sarebbe morto già con la cura Draghi e ora si sognerebbe pure il 9,99 per cento».