La tempesta perfetta. Uno scenario tutt’altro che implausibile: l’anti-europeista, filo-putiniana, Marine Le Pen presidente del Consiglio in Francia, Donald Trump presidente degli Stati Uniti. E l’Europa in mezzo, stritolata. Non esiste un piano B. Solo panico. Come ha osservato Antonio Polito (Corriere, 13 giugno) chi si consola dicendo che, comunque, nel Parlamento europeo c’è ancora una maggioranza europeista, non conosce i meccanismi decisionali europei, scambia il Parlamento di Strasburgo per un normale Parlamento nazionale. Inoltre, chi pensa — è un’idea che circola nella stampa internazionale — che, sia pure paradossalmente, spetterà a una leader pragmatica e realista come Giorgia Meloni, ossia l’unico capo di governo fra quelli dei Paesi europei che più contano, che ha superato bene la prova elettorale, il compito di aiutare una Europa in gravissima difficoltà, rischia di sopravvalutare il peso dell’Italia. Con tutto il rispetto, l’Italia ha comunque due pesanti handicap. Il primo è il solito, quello di sempre: senza conti in ordine le capacità di manovra di un Paese come l’Italia sono limitate. Il secondo è legato alla composizione della nostra coalizione di governo. È facile immaginare che con Le Pen a capo del governo francese, la sintonia fra Le Pen e Salvini creerebbe molti problemi alla filo-atlantica, filo-Ucraina, Giorgia Meloni. Potrebbe limitare la sua capacità di movimento in sede europea.
In una fase di fortissima accelerazione della storia, l’Unione europea, abituata a funzionare a basso regime (sempre e soltanto un passo alla volta dopo lunghe e estenuanti trattative fra i governi europei) rischia oggi come non ha mai rischiato in precedenza. Per l’assoluta novità delle sfide geopolitiche che incombono. Da un lato, c’è un fronte unico all’attacco del mondo occidentale da Est e da Sud: con l’invasione dell’Ucraina e domani di chissà quale altro Paese europeo, con l’alleanza di ferro fra Putin e l’Iran che condiziona il Medio Oriente, con la crescente presenza militare russa in Africa (e relativo controllo dei flussi migratori) e con la Cina che, dall’alto della sua potenza, incoraggia i suoi junior partners: più male riescono a fare agli occidentali è meglio è per l’impero celeste.
Dall’altro lato, c’è un’America in fase di relativo declino di potenza che, comunque vadano le elezioni presidenziali, non sarà mai più quel solido protettore dell’Europa che è stata dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi. Se poi vincerà Trump sperimenteremo subito cosa significa disporre di una Europa indifesa, agnello fra i lupi. Una situazione che può piacere solo agli amici occidentali di Putin (e a quelli di Hamas, cliente dell’Iran).
La politica, così come viene proposta e interpretata ad uso degli elettorati, si basa sempre su semplificazioni e schematismi che confondono le idee: i sinceri europeisti di qua, i sovranisti anti-europei di là. Magari fosse così semplice. Guardiamo più da vicino i suddetti europeisti. Macron è un europeista certo. Ma lo è in linea con la tradizione gollista: pur non avendo più la Francia né la stazza né le risorse il sogno è pur sempre stato quello di una Europa a egemonia francese («la bomba atomica, come il seggio francese all’Onu, sono miei e li gestisco io»). Oppure prendiamo il caso della Germania. All’indomani dell’invasione dell’Ucraina, il cancelliere Scholz , prendendo atto del fatto che il tradizionale pacifismo tedesco non è più utile in tempi di guerra, annuncia un grandioso piano di riarmo (di cui, in verità, si sono poi perse le tracce) ma non ha affatto in mente la difesa europea. Vuole il riarmo tedesco, punto. E stiamo parlando di Francia e Germania, ossia dei due Paesi che a lungo, almeno fino al momento della riunificazione tedesca, avevano guidato il processo di integrazione europea. Tutto ciò per dire che c’è certamente uno scontro in Europa fra forze liberali e illiberali (quest’ultime, coerentemente, anti-europee e filo-putiniane) ma non si faccia finta di dimenticare che gli «europeisti» non erano e non sono dei federalisti, magari allievi di Altiero Spinelli. Erano e sono ben attenti, prima di tutto e soprattutto, ai loro interessi nazionali. La differenza è fra i nazionalisti tout court (i cosiddetti «sovranisti») e i nazionalisti/europeisti, ossia coloro per i quali l’interesse nazionale non può essere efficacemente perseguito privandolo della cornice europea.
Il realismo può apparire brutale ma la retorica, oltre ad annoiare, impedisce di vedere i problemi e, di conseguenza, di cercare i mezzi per risolverli.
L’Europa soffre di un vizio d’origine. Il processo di integrazione europea, avviato durante la Guerra fredda, all’epoca della divisione fra i blocchi (atlantico e sovietico), si sviluppa all’insegna di una divisione del lavoro: agli americani spetta la protezione militare dell’Europa, gli europei sono liberi di investire le loro risorse in sviluppo e welfare. Nel momento in cui la protezione americana cessa di essere garantita, gli europei non sanno più a che santo votarsi. Non hanno i mezzi per proteggersi dalle minacce e dalle aggressioni, dei risorgenti imperi. Il test decisivo, ovviamente, è l’Ucraina: se Putin vince lì, l’Europa sarà sotto scacco. Senza vie di fuga.
Fortunatamente, o sfortunatamente, la storia resta imprevedibile. Forse, di fronte a pericoli mai sperimentati in ottant’anni di pace, l’Unione europea riuscirà nei prossimi mesi (ma è una questione di mesi, non di anni) a uscire dalla routine, riuscirà a comprendere che sono gli stessi interessi nazionali degli Stati europei che per essere tutelati, richiedono cambiamenti radicali: un nuovo sistema di governo dell’Unione che le consenta di fronteggiare un mondo così radicalmente (e brutalmente) cambiato. L’idea che l’integrazione politico-militare sarebbe seguita, automaticamente, per effetto dell’integrazione economica, con cui tanti europei si sono trastullati per decenni, era un inganno, una illusione. Però,a volte, il pericolo aguzza l’ingegno, l’istinto di sopravvivenza si impone. Si deve sperare che ciò accada ora.