Se mi avessero dato un euro ogni volta che ho letto questa frase, sarei ricco. La frase è: «La mafia non è più quella di una volta». Si declina in tanti modi: «La mafia non spara più». O ancora: «Adesso c’è la mafia Spa», «La mafia si muove in silenzio». E via dicendo.
A leggere i quotidiani in queste ore, dopo che il ministero dell’Interno ha presentato la relazione semestrale sullo stato della lotta alla criminalità organizzata di stampo mafioso in Italia, le variazioni sul tema sono tante: «Le cosche sostituiscono la violenza con strategie di silenziosa penetrazione», «il mafioso adesso gira in giacca e cravatta».
E sono uguali, queste frasi, nel loro impianto e nelle suggestioni che evocano, a quelle di uno, due, cinque, dieci e venti anni fa, cioè da quando la mafia ha effettivamente smesso di sparare, in gran parte d’Italia (ci sono, dobbiamo ricordarlo, zone del nostro Paese, come alcuni territori in Puglia e in Campania, dove purtroppo la violenza continua). E quindi prevalgono le analisi sul sommerso, la borghesia mafiosa, le zone grigie e le alleanze nell’ombra, dimenticando che questa è essenzialmente la mafia, violenza di relazione, impunità, e che la tempesta di fuoco della violenza del gruppo dei Corleonesi di Totò Riina e soci è stata solo una parentesi terrorista, lunga qualche decennio, di una storia lunga più di un secolo e mezzo, che è esattamente questo muoversi in silenzio, accanto al potere, che ci sembra cosa nuova e invece è roba antica. La mafia ripete se stessa, è una formula vincente, come la ricetta segreta della Coca Cola.
Anche l’antimafia ripete se stessa, e la presentazione della relazione della Direzione Investigativa Antimafia in Parlamento è uno dei riti immancabili nell’agenda annuale che il giornalista «antimafia» non può mancare. E quindi, eccoli gli articoli del giorno dopo: «Come cambia la mafia, tra alleanze e affari», «La mafia punta alla corruzione e viaggia sul web». «Le mafie non sparano, corrompono». Tutti titoli di oggi. Ma, ripeto, potremmo trovarli anche nei giornali di parecchio tempo fa.
Quest’anno c’è una novità. Nelle relazioni precedenti, infatti, c’era un’altra espressione che aveva grande fortuna. Ed era del tipo «terra bruciata intorno a Messina Denaro». Il riferimento era al capomafia di Castelvetrano, provincia di Trapani, latitante dal 1993, e che da metà degli anni 2000 (prima la sua cattura era interesse di pochi) era diventato, per chi si occupava di lotta alla mafia, una specie di ossessione. Ogni relazione portava dunque l’elenco delle operazioni che, nei mesi precedenti, avevano portato all’arresto di faccendieri e fiancheggiatori, e il commento era sempre lo stesso: «Si stringe il cerchio su Messina Denaro» (2007), «il prossimo obiettivo è la cattura di Messina Denaro» (2009). Angelino Alfano, nel 2010: «Tolta linfa vitale alla sua latitanza». Maroni, l’anno dopo: «Presto riusciremo ad arrestarlo». Ancora: «Mai così vicini» (2013), «Resa più difficile la latitanza» (2014), eccetera. Per pudore le relazioni non riportavano le catture mancate, le piccole e grandi complicità, le omissioni che in quegli anni permettevano al boss stragista di continuare a godere di una latitanza tutto sommato tranquilla, nonostante il caos intorno. Com’è finita, si sa. Il 16 gennaio 2023 Messina Denaro è stato davvero catturato, e quindi adesso si fa i conti con il dopo.
Che poi, bisogna fare i conti anche con il delay, come direbbero quelli bravi, di queste relazioni. A giugno, infatti, viene sì presentata la relazione sull’attività svolta nel contrasto alle mafie. Ma si riferisce al primo semestre dell’anno precedente. In questo caso il 2023. È come aprire un mondo parallelo, ogni volta, perché si racconta un fenomeno complesso e in continua mutazione con una fotografia che è leggermente fuori fuoco. In questo caso, è la prima relazione presentata, come dicevamo, dopo la cattura di Messina Denaro, ma, in questo mondo parallelo, il boss è ancora vivo. Morirà infatti a settembre 2023, e dovremo pertanto aspettare altri sei mesi abbondanti per sapere come cambia la mafia dopo la sua morte. In questa relazione, intanto, è vivo. È come vedere una serie sapendo già cosa accade nel finale di stagione successivo.
Per il resto, la relazione ci dice cose nuove e altre un po’ scontate. Alcuni Paesi del nord Africa sono diventati la «base logistica» per la mafia calabrese per il traffico di stupefacenti in tutto il mondo. A Roma la malavita locale ha stretto un’alleanza con la mafia albanese. Le mafie puntano ai fondi del Pnrr, al narcotraffico e alla vendita di armi. Anche qui, tutto segue lo schema delle mafie, da sempre: fare soldi dov’è possibile farli, seguendo l’adagio dei cugini Nino e Ignazio Salvo, i più famosi imprenditori mafiosi che all’ombra di Cosa nostra diventarono anche una delle famiglie più ricche d’Italia, e che condensavano tutto in una frase quanto mai attuale: «I piccioli fanno i piccioli, e i pirocchi fanno i pirocchi». Non c’è bisogno di tradurre.
Sulla ripresa del traffico di armi, secondo la relazione firmata dal generale della Finanza Michele Carbone, attuale direttore della Dia, la novità è rappresentata dalla guerra in Ucraina. Ma non si capisce in che modo intervengano le mafie italiane: non certo per dare armi, magari, invece qualche gruppo criminale potrebbe cercare di vendere armi sottobanco in Italia. Ma per fare che?
Sul Pnrr, poi, è da quando è stato varato il grande piano di aiuti per l’Italia che viene denunciato il rischio delle infiltrazioni mafiose, ma ancora non è stato trovato un caso concreto – certo, magari lo scopriremo tra anni – così come per la madre di tutte le opere pubbliche italiane, il Ponte sullo Stretto. Si tratta spesso di appalti troppo «osservati» per permettere a una cosca di mettere le mani sopra. Nel caso del Ponte, ad esempio, è facile che qualche gruppo criminale tenti di infiltrarsi non nell’appalto in sé, sarebbe impossibile, ma nel ricco carnet di lavori secondari. Un esempio: se e quando cominceranno i lavori (la prima pietra doveva essere a giugno 2024, aveva detto il ministro Salvini…) a fare gola alla mafia sono gli appalti per il catering degli operai, qualche strada o qualche viadotto secondario, la galleria di un raccordo ferroviario, roba così, lontana dai riflettori.
Sono quattrocento, invece, i comuni sciolti per mafia dal 1991 ad oggi. 550 milioni di euro il valore dei beni sequestrati a boss e loro complici dal 2019 al 2023. Poi si va nel campo dell’imponderabile, di quelle cifre cioè che fanno tanta notizia, rimbalzano sui giornali, ma che sono di difficile o impossibile verifica. Così, viene stimato in 780 miliardi di dollari il valore del denaro sporco riciclato con le cosche di tutto il mondo. La relazione cita come fonte «un recente rapporto della multinazionale americana Nasdaq» (noi eravamo convinti che il Nasdaq fosse solo l’indice dei titoli tecnologici, alla borsa di New York…).
La corruzione e la violenza, ci informa ancora la relazione, adesso avvengono «via social o via app» (il che lascia pensare che sugli store digitali ci sia un app per le intimidazioni o chiedere il pizzo. Ma non l’abbiamo trovata …): «Le organizzazioni criminali sfruttano sistemi di comunicazione crittografata, applicazioni di messaggistica istantanea e i social media per coordinare le loro attività illecite», scrivono gli investigatori. Ma già si sa. Basta andare su Telegram, si trovano gruppi che offrono di tutto, dalle armi alla cocaina. E nelle grandi città te la portano a domicilio. Anche qui niente di nuovo, i mafiosi, come noi, come tutti, non sono cavernicoli, ma figli del loro tempo. A noi piace immaginarli a scrivere pizzini, mentre, magari con uno stuzzicadenti in bocca, sono seduti nel loro studiolo, acconciato nel retro di un ovile, in aperta campagna. Ma non è più così da mezzo secolo, forse non lo è stato mai.