Era il 15 marzo del 2010. Nove mesi prima, Natalia Aspesi aveva compiuto ottant’anni. Stavamo per uscire sul palco dell’Auditorium, a Roma, dove io le avrei fatto delle domande che le permettessero di sciorinare il suo carniere di aneddoti.
Il carniere di aneddoti di Natalia è il lascito d’un secolo breve e lunghissimo e irripetibile, in cui poteva succedere che la figlia d’una maestra vedova diventasse la più letta commentatrice di costume del giornalismo italiano, trovandosi su un treno a chiacchierare coi Beatles o a Viareggio a farsi dire da Mina che non avrebbe mai più fatto concerti o al capezzale di Gino Paoli che si era appena sparato.
Poteva succedere, in quei pochi decenni irripetibili di cui parliamo come fossero la norma perché sono i decenni nei quali ci siamo formati, che una donna senza patrimonio e senza istruzione prendesse l’ascensore sociale, diventasse qualcuno nei giornali, comprasse case, facesse la vita che prima e dopo quei decenni aveva e avrebbe fatto quasi solo chi aveva ereditato. Subito prima, sarebbe probabilmente finita a zappare i campi e a scrivere poesie di nascosto. Subito dopo, a farsi i filmati col cellulare. In mezzo, è diventata Natalia Aspesi. Questione di tempismo, le possibilità vanno come Martin Amis diceva andassero le vite: un po’ in fretta.
Sono stati, quelli, anche gli anni in cui è nato il pop, ed è curioso che del carniere aspesiano di aneddoti io prima ne abbia citati tre che attengono a cantanti, giacché non credo ci sia niente che interessa a Natalia meno delle canzonette. Tanto ama i libri e il cinema, tanto non le importa dei cantanti, non li conosce, sbuffa, fa le facce che faccio io se mi parlano di calcio.
Quindi non le ho detto che venerdì scorso erano quarant’anni da quel concerto che fece Francesco Guccini in piazza Maggiore, da quella sera che deragliò alcune vite tra cui la mia d’undicenne, e di cui la Natalia cinquantacinquenne neppure s’accorse. Le ho detto solo che l’avevano intervistato per la ricorrenza, e richiesto di come stesse Guccini aveva dato la più aspesiana delle risposte: ho ottantaquattro anni, come vuole che stia.
Qualche tempo fa a una cena ho incontrato dei giornalisti del Venerdì che da me volevano sapere solo come stesse Natalia, cosa dicesse, che notizie ne avessi, consapevoli che senza di lei il loro giornale non esisterebbe ma troppo intimiditi per chiamarla e chiederle notizie della sua salute o del suo umore.
Era poco dopo Sanremo, e qualcuno raccontava che da Repubblica le avevano come sempre chiesto un pezzo di commento al festival, e lei come sempre aveva detto «ma io Sanremo non lo guardo», e come sempre il giorno dopo era arrivato il pezzo. Ci eravamo guardati come si guardano quelle accomunate dall’essere state fidanzate con lo stesso playboy: uh, come riconosco questo tic.
Ma sto divagando: marzo 2010. Non so perché stessimo, prima di uscire sul palco, parlando di Marilyn Monroe. Fatto sta che io, trentasettenne e in piena coda lunga della fissazione delle trentenni per la bellezza, dissi che meno male che era morta prima di sfasciarsi, almeno c’erano solo sue foto in cui era stupenda, invece di finire come la Bardot. Natalia aveva detto: ma magari a lei avrebbe fatto piacere vivere un altro po’.
Oggi la Aspesi compie novantacinque anni, e io continuo a pensare alla strepitosa intervista che le ha fatto sull’ultimo numero del Venerdì Marco Cicala, intervista in cui, in mille modi tutti garbatissimi, dà dei cretini a quelli che la stipendiano: «Che senso ha rincorrere i lettori giovani? Mi pare una follia», e quelli che scrivono alla sua posta del cuore che «sono gli stessi lettori di qualche decennio fa, ma sono invecchiati e non ce ne sono di nuovi», e i giornalisti che «Come fa a essere divertente un mestiere che non esiste più?», e i social dove nessuno riesce a dire una cosa in tema ma tutti commentano a caso, «ognuno racconta gli affari suoi»; ma ripenso anche a quell’osservazione saggia con cui aveva risposto alla mia osservazione scema.
Quando stava per compiere novant’anni le feci un’intervista in cui le chiesi degli anni in cui «i giovani d’oggi» era lei, e rispose così: «Non esisteva la giovinezza: le ragazze di 19, 20 anni erano vestite come la loro mamma. Fino a Brigitte Bardot non abbiamo conosciuto l’immagine della giovinezza. C’era la donna, che poteva avere 40 anni ed era come già cadavere, e se ne aveva 18 o 19 doveva sposarsi perché era già adulta. Quando non eri più bambina, eri donna. La Bardot ha messo i pantaloni alla pescatora e le magliette corte e lì è nata l’immagine dell’adolescenza, che adesso hanno anche le cinquantenni». La rileggo e penso che sempre alla Bardot si torna, ma penso anche che aveva sintetizzato “Questi sono i 50” quattr’anni prima ch’io cominciassi a scriverlo.
Ieri, alla festa per i suoi 95 che negava di volere e ora nega d’aver organizzato, guardavo gli invitati che la rimiravano con una devozione e una frociaggine che il Papa se le sogna, e pensavo a una mattina di qualche mese fa. Era un’oretta che parlavamo, ogni tanto interrotte dal suo telefono che squillava con chiamate che lei liquidava spiccia, di voci altrettanto devote; il mio telefono ovviamente taceva. Dopo un’ora mi dice: non ho più amici, non esco mai, non vado più di moda, non mi invita più nessuno. Anche se ormai so che nulla le piace quanto fingersi vittima, ancora ci casco, quindi esalo: ma se non fai altro che ricevere telefonate e inviti. E lei: ma cosa c’entra! Due giorni dopo, ho aperto Instagram e l’ho vista con un amico alla Scala.
Mi sono ricordata d’una volta, sarà stato cinque anni fa, mi aveva chiesto d’accompagnarla all’Anteo, proiettavano per la stampa il film di Bellocchio che sarebbe stato a Cannes. Una volta lì, l’organizzatrice della proiezione non voleva farmi entrare, chi è questa, non è tra i nomi accreditati. Lei costrinse la poveracrista la cui unica soddisfazione del mese sarebbe stata rifiutarmi l’ingresso a chiamare non so chi di più alto in grado per farsi dire che certo che potevo restare, e mentre io le dicevo «ma guarda che me ne vado volentieri» lei mi bisbigliava: sii servile, vedrai che ti fanno entrare. C’era, in quella raccomandazione, tutta Natalia, e il suo essere nata in un’epoca in cui le donne potevano farsi strada solo con la simulazione, e il suo aver perfezionato quel talento come mai sapranno fare le emule postmoderne: fingiti debole, fingiti scema, fingiti bisognosa, fingiti grata, fingiti vogliosa di vedere i film d’autore, fingiti una che non guarda Sanremo, fingiti vittima.
Ma non fingerti mai priva di senso del ridicolo. Vedo su TikTok il video d’una ragazza che dice «non siamo tutelate» perché ha denunciato uno che in treno si sfregava i pantaloni, e i poliziotti hanno osato chiederle se avesse esposto l’arnese, come se facesse differenza, come lei non fosse comunque violentata dalla visione d’uno sfregatore di stoffa seduto quattro posti più in là. Mi viene subito in mente Natalia che racconta di lei che torna a casa da scuola, in piena seconda guerra mondiale, e uno si apre l’impermeabile, e lei: uh, com’è piccolo!
Ieri, mentre the great pretender si fingeva una che non sta dando una festa di compleanno, ho pensato a Lennon e McCartney che si vedono arrivare una signora in abiti da alta società e mai gli viene in mente che quella sia una reporter e non una che si finge svagata, ho pensato che è una scena che sarebbe tranquillamente potuta avvenire la settimana scorsa, su un treno o alla Scala o in un qualunque altro posto in cui Natalia si fingesse smarrita o di troppo.
E poi mi sono resa conto che, per quanto sembri una scena della settimana scorsa (ma con chi al posto di Lennon: Tananai?), l’anno prossimo fanno sessant’anni dai Beatles in Italia: suonarono a Milano il giorno in cui Natalia compiva trentasei anni (scommetto che già fingeva di non volerli festeggiare). E allora, come succede spesso, ho pensato a quel rigo di Martin Amis: è andata un po’ tanto in fretta, cazzo.