Il 18 giugno il Senato ha approvato in prima lettura il disegno di legge costituzionale sul premierato elettivo. Il testo è migliorato su alcuni aspetti, ma presenta ancora gravi limiti, anche sul piano tecnico, soprattutto per quanto riguarda il sistema elettorale, i cui punti chiave rimangono avvolti nel mistero. L’esame del provvedimento si è svolto in un clima di contrapposizione frontale tra maggioranza e opposizione, reso ancora più esasperato dalla polarizzazione prodotta dalle elezioni europee. Gli uni favorevoli all’elezione diretta «purchessia», incuranti della funzionalità e della coerenza del nuovo sistema, gli altri contrari con l’utilizzo degli stessi identici argomenti della «deriva autoritaria», «democratura» ecc. che sentiamo ripetere da tanti lustri contro ogni tentativo riformatore. Insomma, uno scontro insensato tra «innovatori-sgangherati-apprendisti-stregoni», da una parte, e «conservatori-difensori della Costituzione più bella del mondo», dall’altra.
I due schieramenti sembrano decisi a portare avanti lo scontro fino al referendum, entrambi convintissimi, beninteso, di vincerlo. Il grande assente è stato l’effettivo confronto di merito e la ricerca di soluzioni condivise, non solo auspicabili, trattandosi di regole del gioco, ma anche certamente possibili se solo si fosse preso in considerazione (o ancora lo si tirasse fuori dai cassetti) il testo del relatore Cesare Salvi alla commissione bicamerale D’Alema del 1997. Un testo ignorato, invece, tanto dalla maggioranza di governo, privo di una seria strategia riformatrice, quanto dal Partito democratico, dimentico dell’elaborazione riformista della forma di governo «neo-parlamentare» che lo aveva caratterizzato sin dalla tesi n. 1 dell’Ulivo.
La finalità del disegno di legge – la stabilità dei governi scelti dai cittadini – è condivisibile, come dimostrano in modo incontrovertibile i sessantotto governi e i trentuno presidenti del Consiglio nei settantasette anni di storia repubblicana. Il problema è il come, cioè i mezzi individuati per realizzare l’obiettivo. E qui casca l’asino.
Certamente il testo del disegno di legge ha subito alcuni miglioramenti, soprattutto nel corso dell’esame in Commissione. In particolare, è stata modificata la cosiddetta norma «antiribaltone» che in precedenza consentiva imboscate parlamentari su un qualsiasi voto di fiducia per far cadere il premier eletto e sostituirlo con un altro parlamentare della maggioranza che diventava inamovibile. Con le modifiche introdotte, invece, il premier eletto disporrà del potere di scioglimento, secondo le tendenze prevalenti nelle maggiori democrazie parlamentari europee, anche se la disciplina introdotta presenta alcune incongruità e una eccesiva rigidità.
In caso di crisi sarà comunque il premier eletto a decidere, dimettendosi, se sciogliere oppure chiedere un reincarico oppure passare la mano ad un secondo premier, purché parlamentare eletto in collegamento con il premier stesso. Per il secondo (e ultimo) governo della legislatura non è previsto un vincolo di maggioranza. Pertanto, con il beneplacito del premier eletto, sono possibili «staffette» e cambi di maggioranza. E in caso di crisi gravissime – finanziarie, pandemiche, belliche – potrebbe anche nascere un governo di larghe intese, ma a tal fine il presidente della Repubblica potrebbe conferire l’incarico solo allo stesso premier eletto o ad un altro parlamentare della maggioranza, non a un «tecnico» non parlamentare. Vi sono anche altri due miglioramenti significativi.
È stato introdotto un limite dei mandati per il premier eletto direttamente (due legislature elevate a tre se le precedenti hanno avuto durata complessiva inferiore a sette anni e mezzo). E sono stati precisati i poteri del presidente della Repubblica accogliendo un emendamento del senatore Marcello Pera che ha eliminato la controfirma governativa su una serie di atti che oggi costituiscono solo per prassi una prerogativa esclusiva del Presidente della Repubblica, in modo che il premier eletto direttamente non possa rivendicarne la condivisione nel merito (ad esempio: la nomina dei giudici costituzionali, i messaggi alle Camere e il rinvio delle leggi, i decreti di indizione delle elezioni e dei referendum, la concessione della grazia e la commutazione delle pene).
Ma rimangono gravi limiti. Quello principale riguarda la legge elettorale. Il disegno di legge stabilisce che il premier è eletto direttamente, ma non dice come. Eppure, il sistema elettorale è parte fondamentale della forma di governo, i punti chiave dovrebbero essere conosciuti e valutati insieme alla riforma.
Soprattutto, il testo non stabilisce qual è la maggioranza necessaria per eleggere il premier, se quella assoluta o quella relativa; non fissa neppure una soglia minima (il quarantacinque per cento, il quaranta per cento o altra) e non dice cosa accade nel caso in cui nessuno superi detta soglia, cioè se si svolge il ballottaggio oppure se non si attribuisce il premio a nessuno per evitare che esso sia eccessivo, oltre i paletti fissati dalla Corte Costituzionale (cadendo però in questo modo nella situazione israeliana di un premier senza maggioranza e contraddicendo il testo stesso della riforma che prevede l’assegnazione di un premio che «garantisca» la maggioranza di seggi in entrambe le Camere).
La maggioranza assoluta – prevista in tutte le democrazie europee dove si elegge direttamente il vertice dello Stato e anche in Italia per l’elezione dei sindaci – è indispensabile per assicurare una forte legittimazione popolare e quindi per fare in modo che l’elezione del premier sia il frutto di una scelta «deradicalizzata», in cui sono decisivi gli «elettori di mezzo», non collocati su posizioni estreme; si tratta di un fattore di equilibrio del sistema; con la maggioranza relativa, invece, si avrebbe un premier di minoranza, votato solo dal trentacinque-quaranta per cento degli elettori, e quindi con il sessanta-sessantacinque per cento di essi contrari; un premier che pertanto potrebbe collocarsi su posizioni estreme di destra o di sinistra. La differenza è sostanziale, si tratta di scegliere tra due sistemi politico-istituzionali completamente diversi.
Sulla mancata previsione di una soglia minima e del ballottaggio hanno pesato le contraddizioni all’interno della maggioranza, dove la Lega ha opposto e oppone la sua assoluta contrarietà (per l’evidente ragione che la maggioranza assoluta sarebbe un traguardo proibitivo per Matteo Salvini). Di conseguenza governo e maggioranza hanno rinviato ogni decisione sulla soglia minima e sul ballottaggio alla futura legge elettorale. Ballottaggio che è indispensabile anche nell’eventualità (che nessuno può escludere) di esiti difformi tra le due Camere e per l’elezione del premier, in particolare se questa avvenisse con una scheda separata. Ma il testo non precisa neppure il numero di schede e di voti (due o tre?) di cui disporrebbero i cittadini per le tre elezioni, di cui si sa solo che «hanno luogo contestualmente».
Non è una questione di poco conto. L’elezione diretta del premier con una scheda separata avrebbe inevitabilmente l’effetto di determinare l’attribuzione del premio e quindi, per «trascinamento», anche l’elezione parlamentare; mentre con due schede (salvo l’ingombrante complicazione del bicameralismo paritario) l’elettore potrebbe più appropriatamente scegliere congiuntamente candidato/lista/schieramento e candidato premier collegato, come di fatto avviene nel Regno Unito.
Lasciare indeterminati e rinviare al legislatore ordinario gli aspetti fondamentali del sistema elettorale costituisce una scelta miope e inaccettabile, non solo sul piano politico, ma anche su quello dei problemi di costituzionalità. Infatti, il Governo e la maggioranza non hanno fatto i conti con le singolarità del sistema istituzionale italiano, innanzitutto con il bicameralismo paritario nel quale le due Camere sono del tutto autonome. Considerato che con il ballottaggio gli elettori deciderebbero con un solo voto l’attribuzione del premio e la composizione definitiva di entrambe le Camere, occorre una norma di copertura costituzionale che lo preveda, perché la legge elettorale, da sola, non potrebbe farlo.
Ma va prevista nel testo della riforma costituzionale anche una soluzione per la questione del voto degli italiani all’estero. Oggi la Costituzione assegna loro una sorta di diritto di tribuna prevedendo che eleggano nella circoscrizione Estero solo otto deputati e quattro senatori, cioè il due per cento dei parlamentari, pur essendo numericamente cinque milioni, circa il dieci per cento dell’elettorato; quindi oggi «pesano» cinque volte meno rispetto al loro numero. Ma con l’elezione diretta del premier gli italiani residenti all’estero conterebbero per tutti i loro voti, e pertanto potrebbero risultare decisivi, determinando una contraddizione gravissima tra l’esito elettorale in voti e quello in seggi. Pertanto, occorre che anche per l’elezione diretta del premier il voto degli italiani all’estero abbia lo stesso «peso» che ha oggi con la Circoscrizione Estero. E questo (o altra soluzione che dovesse essere individuata) va inserita necessariamente nel testo della riforma costituzionale.
Senza adottare queste modifiche, la Corte costituzionale potrebbe dichiarare l’incostituzionalità della legge elettorale (come già avvenuto per il Porcellum e l’Italicum) rendendo inapplicabile anche la riforma costituzionale, ancorché approvata dal referendum. Infatti, in base alla norma transitoria prevista dallo stesso disegno di legge (articolo 8, secondo comma) la riforma costituzionale «si applica a decorrere dalla data del primo scioglimento o della prima cessazione delle Camere successivi alla data di entrata in vigore della disciplina per l’elezione del Presidente del Consiglio dei ministri e delle Camere».
Nel caso di inapplicabilità del sistema elettorale e della riforma costituzionale, il presidente della Repubblica sarebbe costretto a nominare il premier in base alle attuali norme, ancorché abrogate, ma mantenute in vita in via transitoria. Una situazione transitoria che rischierebbe però di non transitare mai qualora il problema di costituzionalità della legge elettorale dipendesse da mancanze e difetti della riforma costituzionale. Si tratterebbe di un cortocircuito istituzionale – una sorta di comma 22 – che occorrerebbe assolutamente evitare, mettendo al sicuro il combinato disposto della riforma e della legge elettorale almeno dai più evidenti profili di incostituzionalità.
Un’altra modifica assolutamente necessaria riguarda l’elezione del presidente della Repubblica. Occorrerebbe, da una parte, ampliare il collegio di elezione ai membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia e a un numero di delegati delle autonomie locali pari a quelli dei delegati regionali; dall’altra, innalzare dal cinquanta per cento al cinquantacinque per cento la maggioranza richiesta dopo il sesto scrutinio (non più dopo il terzo, in base ad un emendamento di Italia Viva approvato in Commissione), in modo da rafforzarne la base di legittimazione e sottrarlo ad una scelta da parte della sola maggioranza che ha vinto le elezioni.
In questo nodo sarebbe salvaguardato il ruolo di garanzia del presidente della Repubblica, e non dovrebbe destare preoccupazione il fatto che l’investitura popolare del premier e la stabilità di governo prodotta dalla nuova forma di governo neo-parlamentare – se ben costruita, in base ai rilievi formulati – riduca i poteri e i casi in cui il presidente della Repubblica è costretto ad intervenire come motore di riserva del sistema, a causa del frequente inceppamento del motore principale, cioè del circuito della responsabilità politica elettori-maggioranza-governo.
Le quattro associazioni e fondazioni che hanno promosso a febbraio scorso la maratona oratoria «Premierato: non facciamolo strano» (LibertàEguale, Fondazione Magna Carta, IoCambio, Riformismo&Libertà) si sono fatte carico di proporre con due soli emendamenti le soluzioni a tutte le questioni dianzi esaminate (v. i testi in nota a questo articolo), avvalendosi anche del già citato testo del relatore Salvi alla bicamerale D’Alema nonché della proposta formulata il 16 aprile 1997 nell’audizione svolta in quella sede dal professor Augusto Barbera, oggi presidente della Corte costituzionale. I due emendamenti sono stati presentati dal senatore di Italia Viva Ivan Scalfarotto, in spirito di servizio, per offrirli al dibattito dell’Aula del Senato ma, a causa della mancanza delle condizioni minime per un confronto di merito, sono stati ritirati con l’auspicio che possano essere presi in considerazione nel seguito dell’iter parlamentare presso la Camera dei deputati.
È difficile ritenere che Giorgia Meloni non si sia proprio resa conto dei limiti del disegno di legge costituzionale e del rischio elevatissimo che esso sia utilizzato dall’opposizione per coalizzarsi contro di lei nella campagna referendaria, il cui esito non è oggi prevedibile in alcun modo e che pertanto potrebbe anche costare alla premier una sconfitta gravissima (rispetto alla quale conterebbe poco il proposito di non dimettersi, a differenza di quanto aveva annunciato Renzi per il referendum del 2016).
Quali scenari si possono dunque prospettare dopo l’approvazione del disegno di legge in prima lettura da parte del Senato? Antonio Polito ne ha individuati tre in un articolo sul Corriere della Sera. Il primo è che Giorgia Meloni apra a significativi cambiamenti del disegno di legge; anche se difficilmente ciò determinerebbe l’approvazione con i due terzi, certamente renderebbe la riforma più difendibile nel referendum (obiettivo conseguibile, a nostro avviso, solo riproponendo il testo Salvi che spiazzerebbe fortemente il Pd di Elly Schlein). Il secondo scenario è che la riforma non venga invece modificata in modo significativo, ma che il suo l’iter venga rallentato per rinviare il referendum a fine legislatura, o in contemporanea con lo svolgimento delle prossime elezioni o addirittura dopo di esse (come avvenuto per la riforma costituzionale del centrodestra che si svolse nel 2006).
Il terzo scenario è che il premierato sia dirottato su un binario morto, e che vada invece avanti la riforma della magistratura, come adombrato in una intervista dal ministro Crosetto. Ma ci sembra difficile che Giorgia Meloni rinunci ad un obiettivo che ha definito «la madre di tutte le riforme» e sulla quale, come si dice, «ci ha messo la faccia». Nella speranza, sempre più flebile, che anche questo tentativo di riforma delle istituzioni non si concluda con un fallimento, come quelli che lo hanno preceduto ormai da tanti lustri, non possiamo che auspicare l’inverarsi del primo degli scenari descritti.