Come la piangiamo, Monica Vitti, nell’epoca in cui col morto devi avere una foto, e lei era reclusa con la sua malattia da vent’anni? Nell’epoca in cui tutto va scaldato, avvicinato, personalizzato, e non funziona dire la più grande attrice comica (quindi: la più grande attrice tout court) italiana di tutti i tempi: devi avere un aneddoto, un ricordo, un qualcosa.
(Sì, ho detto più grande attrice comica. No, non mi verrebbe mai in mente di definire Franca Valeri “attrice”).
Come si elaborano i lutti nell’epoca in cui siamo così abituati alla reazione instant che, mezz’ora dopo l’uscita della notizia della morte della Vitti, hanno chiesto al povero Amadeus come la omaggeranno stasera a Sanremo? (Avrei voluto rispondesse: non lo so, sono qui a parlare con voi idioti invece di cercare di capire come ricordarla).
Aneddoti sulla Vitti non ce ne sono, e nessuno lo sa meglio di me che sei anni fa ho provato a fare un documentario su di lei, e già allora erano praticamente tutti morti, da Scola a Monicelli, e mentre ci lavoravo hanno iniziato a morire le poche amiche sue reduci, come Marta Marzotto, e a un certo punto qualcuno ci disse che dovevamo assolutamente intervistare Gian Luigi Rondi, «ma sbrigatevi, perché l’estate per i vecchi è letale», e Rondi pur di smentirlo morì il primo giorno d’autunno.
Già allora era praticamente impossibile ricordare Monica Vitti. Chi l’aveva conosciuta e frequentata (Gianni Morandi, Furio Colombo) non ne voleva parlare: in che termini parli d’un’amica che non si ricorda più il tuo nome, in che termini parli della più brillante delle attrici cui è successa la cosa più terrorizzante per qualunque persona brillante (ma forse anche per quelle ottuse), l’annebbiamento della consapevolezza?
(Una persona che avremmo dovuto intervistare per il documentario mi disse di sé che giocava a burraco perché era, come molti coevi, terrorizzata dall’Alzheimer e le avevano detto che teneva svegli i neuroni, «ma forse non funziona, anche la povera Vitti giocava sempre a burraco». C’è una cosa peggiore, forse, che essere morta, ed è essere viva e «la povera»).
Non riesco neanche a chiedermi come possa essere vivere in stato d’incoscienza così a lungo, mentre attorno a te la gente vive ma soprattutto muore: l’anno scorso è morta Isabella De Bernardi, che citavo ieri sera a proposito del suo accento romano in “Un sacco bello”, e che era stata la figlia della Vitti e di Sordi in Io so che tu sai che io so.
Forse persino più atroce mi pare la domanda: com’è avere un’amica che non è morta ma è come se lo fosse? È accaduto più o meno a tutti noi, avere amici con diagnosi terminali, e assistere allo strazio dell’agonia, o immaginarla senza avere il coraggio d’avvicinarsi. Però sono cose che durano sei mesi, un anno, due. Le immagini pubbliche più recenti che avevo visto, sei anni fa, negli archivi, sono quelle di Monica Vitti al funerale di Vittorio Gassman. Era il 2000, ventidue anni fa. Cosa fai, per ventidue anni: chiami il marito della tua amica chiedendo «novità»?
In “Vitti d’arte, Vitti d’amore”, documentario diretto l’anno scorso da Fabrizio Corallo, Barbara Alberti dice che quello di Roberto Russo, il marito che ha custodito il corpo della Vitti finché è stato tecnicamente vivo, è stato un atto d’amore e di intelligenza politica. Sei anni fa telefonai a Russo per chiedergli il permesso di fare un documentario sulla moglie. Fu molto gentile e disse che però non avrebbe potuto partecipare, perché di lei avrebbe potuto dire solo cose eccessivamente positive. Pensai, e penso ancora, che non ci siano amore o intelligenza politica che bastino, per un ruolo che non c’è neanche una parola per dire – sei vedovo, ma non lo sei – e per portarlo avanti per tutti quegli anni. È un ruolo tra l’eroismo e la santità, una cosa che ci vorrebbe un grande romanziere per raccontare.
Della Vitti bisogna parlare da viva, è l’unica soluzione. Da viva nei termini in cui ne avremmo parlato in faccia a lei, o alle sue spalle ma sapendo che se poi lo veniva a sapere s’incazzava. Prendo dai diari di Gian Luigi Rondi, sublime pettegolo, 22 gennaio 1963: «Mi sono accorto che, dopo “La notte”, Mastroianni e Monica non si salutano più; comunque Michelangelo, in mezzo, sembrava far da paciere».
Era la Monica di “Michele”, così lei chiamava Antonioni in una famosa intervista a Oriana Fallaci, in cui si chiedeva perché lui se la fosse presa brutta com’era. Il che fa ridere – era bellissima – ma è interessante. Una cosa di cui mi accorsi in quell’estate di documentario mancato è che la Vitti non somiglia mai alla Vitti. Le sue foto sono tutte diversissime, e non è per le ragioni di chirurgia o altri ritocchi per cui cambiano le attrici di oggi: c’è qualcosa nella sua faccia che è mutevole in modo persino più destabilizzante di quanto lo fu la sua carriera.
La Vitti ha fatto il contrario di quello che fanno in genere i comici e le belle donne, due categorie che invecchiando virano sul drammatico per esser presi sul serio. Lei era partita da «Mi fanno male i capelli» e diventò Assunta Patanè e Adelaide Ciafrocchi, cioè “La ragazza con la pistola” e “Dramma della gelosia”. Aveva quasi quarant’anni, e cominciava la sua seconda vita, e diventava quel che era sempre stata.
“La ragazza con la pistola” (è su Prime, andatevelo a guardare, invece di perdere tempo con me; Dramma della gelosia è su Prime e anche su RaiPlay) fu un’ossessione della mia adolescenza, e oggi non lo girerebbero mai: mettere in burletta il rapimento, la violenza, il matrimonio riparatore, tre anni prima di Franca Viola, le donne non hanno diritti e voi ridete, ma non vi vergognate. Che fortuna che sia esistito un tempo meno scemo in cui i Monicelli e le Vitti avevano voglia di fare ciò che è più necessario e utile fare delle cose orrende: riderne.
Di Monica Vitti bisognerebbe parlare da viva, ma certo per farlo bisogna conoscerla. Poco fa un grande giornale, con la fretta d’occuparsi delle notizie finché sono calde, di fare i clic finché il morto è in tendenza, ha pubblicato come «interpretazione più celebre di Monica Vitti» una scena di “Travolti da un insolito destino”.
Sarà stato contentissimo Giancarlo Giannini, coprotagonista di Mariangela Melato nel film della Wertmüller, e tra gli ultimi coprotagonisti dei grandi film della Vitti a essere vivo. «Contentissimo» un’antifrasi, ma forse no: in fondo, l’intercambiabilità della comica bionda è una cialtronata perfetta per un copione comico interpretato dalla Vitti. È il cinema che esce dal cinema, come accade sempre più spesso da quando il cinema del Novecento è quasi tutto uscito di scena, e a noi restano solo morti con cui abbiamo almeno un autoscatto.