2/9/23 La notizia è che a cinquant’anni suonati non si è ancora stancato. Intrappolato nella parodia del poeta maledetto, nella macchietta dell’artista tormentato, dell’ultimo dandy, “dandy maculato trash”, come diceva Aldo Grasso, Morgan gioca ancora a “épater le bourgeois”. Solo che non ci sono i “bourgeois”. Solo che non c’è più nulla di artistico a sbalordirci, stordirci, indignarci, a parte quel “frocio maledetto” urlato dal palco di Selinunte, subito dato in pasto a giornali e social (sommando così ai suoi Rimbaud, Baudelaire, Verlaine, anche l’indimenticabile Storace di “dica qualcosa di destra…”: “A froci!”). L’omofobia però qui c’entra poco. Il dibattito si è subito incagliato e incarognito in un punto cieco, inutile e assai noioso. Un demone antico e illustre spinge semmai Morgan a reiterare la stessa scena da anni, cioè lo sbrocco, la provocazione, la sfuriata, e poi a seguire scuse, pentimenti, vittimismo.
E’ il gioco del genio irritato, sfrontato, asociale, dell’inclassificabile-incollocabile-incontenibile che però finisce sempre negli stessi posti, a “X-Factor”, “Ballando”, “Amici”, per poi immalinconirsi di fronte alla miseria culturale del suo paese.
Una maschera tradizionale italiana, che dovrebbe stare tra Arlecchino, Pinocchio, Pulcinella e Pierino. Prova Morgan a fluttuare in quello spazio fluido tra Aldo Busi all’“Isola dei famosi” e la lectio magistralis di Carmelo Bene da Costanzo, con l’artista o l’intellettuale dissacratore chiamato sul carrozzone dello showbiz per rimarcare il suo schifo verso lo showbiz. Ma Morgan non è Aldo Busi. Non è Carmelo Bene. Certo il Morgan televisivo per esigenze di sopravvivenza si diverte a prenderci per il culo. Come dice Woody Allen “il vantaggio di essere intelligente è che si può sempre fare l’imbecille, mentre il contrario è impossibile”. Solo che il ruolo è meno semplice di quel che sembra. Bisogna saperlo fare. Si sconfina facilmente nel patetico. Perché la società dello spettacolo divora tutto. La televisione poi ha un debole particolare per intelligenti e geni che pensano di rovesciare i suoi meccanismi dall’interno.
“Averlo è il mio vanto, risveglierà le coscienze”, diceva Simona Ventura sbandierando l’approdo all’“Isola” di uno scrittore anticonformista sogghignante e dissacratore come Busi. Vedendolo poi all’opera, sera dopo sera, l’entusiasmo calò. Lei continuava a ripetergli, “guarda Aldo che rischi di non essere capito, hai capito?” Arrivarono puntuali le dichiarazioni scomposte che tutti aspettavano. Su Ratzinger, definito senza troppi giri di parole “omosessuale represso”, sulla nostra cultura omofoba (che oggi strapperebbe semmai molti applausi), sulle aliquote fiscali (“pago le tasse e sono orgoglioso di farlo, ma la prima legge che dovrebbe fare un governo di destra è quella sulle aliquote al 23 e 33 per cento, e invece non fanno niente!” e qui se la prendeva con Berlusconi: aveva ragione Busi, era il 2010, c’è sempre la destra, siamo ancora fermi lì). Busi fu radiato dall’“Isola” e dalla Rai. La sua uscita di scena fece tutti felici, a destra, al centro, a sinistra. Non chiese scusa in ginocchio. Ci regalò invece un monologo finale struggente e bellissimo, in un italiano che lì, in mezzo ai naufraghi, tra Loredana Lecciso e Nina Senicar, risuonava come una lingua oscura, mai sentita prima: “Questo capriccio estetizzante, decadente, quasi di rassegnata malinconia che mi ha portato a partecipare all’Isola si è concluso”, diceva Busi, “mi sento esautorato, superfluo, inutile”. Gelo anche in studio. C’erano ancora pochi smartphone per googlare “esautorato”. Tra gli endorsement incassati da Busi arrivò proprio quello di Morgan (“le frasi dette da Busi sull’omosessualità e sulle tasse sono condivisibili”). Fu una grande pagina di televisione. Ma alla fine è come a Las Vegas: vince sempre il banco.
Persino Carmelo Bene, che era Carmelo Bene, e aveva iniziato la sua carriera di provocatore pisciando in testa agli spettatori delle prime file, e che stava lì da Costanzo anche per dimostrare che genialità e cialtroneria in tv non sono separabili, tentennò quando all’ennesimo “io sono morto, io mi sono superato, io non esisto, voi non esistete”, D’Agostino gli chiese a bruciapelo: “Ma se non esisti, perché ti tingi i capelli?”. Del resto anche “l’insulto al pubblico” è arte complicata e scivolosa (rileggersi l’omonima pièce di Peter Handke, suo folgorante esordio teatrale del 1966, quando furoreggiavano happening e vessazioni varie dello spettatore). Anche qui Morgan ha provato a distinguersi dai suoi colleghi che oggi se la prendono per lo più con suonerie accese e smartphone puntati addosso mentre cantano o recitano in penombra. Al limite, una bottiglietta d’acqua tirata in testa, come a Elettra Lamborghini. Morgan no. Morgan si è sentito svilito, mercificato come artista-oggetto: “L’avermi chiesto una cover di Battiato come fossi un jukebox, dopo una delle più ispirate performance della mia vita, mi ha letteralmente ucciso”. E questa presunzione da genio anarcoide, esibizionista, non simpatico, andrebbe anche bene, volendo, se solo poi non arrivassero le scuse. Ma i tempi, si sa, sono quelli che sono. E’ dalla sua vecchia apologia del crack e della cocaina che Morgan deve più o meno ciclicamente smentire, rettificare, chiedere scusa a tutti. C’è poi in lui anche l’impulso pedagogico, la lezione al pianoforte per svelare le complessità nascoste del pop sotto lo sguardo vigile di Pino Strabioli, che è il lato apollineo di Morgan, come un Maestro Manzi del rock-underground, o Luigi Nono che infliggeva composizioni dodecafoniche agli operai dell’Italsider, anche se quelli preferivano Modugno.
Con questo nome d’arte da pirata, e pose e culti ottocenteschi ormai incomprensibili ai tiktokers, e canzoni che si intitolano “L’Assenzio”, “Idea platonica”, “Me”, Morgan occupa il posto fisso dell’egomaniaco autoproclamatosi “genio” che un po’ scherza, un bel po’ ci crede, un po’ non lo sa più manco lui, mentre noi non capiamo, non meritiamo, non abbiamo gli strumenti per. Finisce a urlare dal palco cose come, “siete stupidi, la società è una merda”, e insomma ci si aspetterebbe di meglio anche qui (sono peggio frasi fatte del genere, da scritta sui muri fuori l’Università di Bologna, che la scomposta uscita “omofoba”). Poi ha usato Fedez e Marracash come termine di paragone per separare le musichette insulse dalla “vera arte”. Aldo Busi, all’epoca dell’“Isola”, se la prendeva con Federico Mastrostefano, un tronista di cui oggi non si ricorda nessuno (“non è una novità per me non essere capito”, diceva Busi, “purtroppo sono tutti come Federico Mastrostefano. Non c’è più cultura. Il paese è morto”). Ma il paese, si sa, muore in continuazione. Non vengono però in mente molte canzoni, motivi, opere memorabili di Morgan. Perché la sindrome del genio nell’epoca del trash è tutta qui. Morgan è quel repertorio di gesti scomposti e provocazioni che hanno fatto la sua fortuna come personaggio televisivo. E poi, per quale altro motivo si va a un suo concerto, pardon concerto-lezione, se non per aspettarsi da un momento all’altro un fuori-programma, un guizzo, un’uscita stonata? L’opera non conta. L’opera è Morgan e questa sua riflessione anche molto poetica e malinconica sull’impossibilità di trasformare il talento in genio, su cosa vuol dire credersi Lou Reed o David Bowie a Monza e dintorni negli anni Novanta, sul comporre sinfonie e finire a fare il giudice a “X-Factor” o il matto a Sanremo.
Però dovremmo tutti essergli grati. Dovremmo trattarlo tutti un po’ meglio. Perché da quindici anni fa girare una gran giostra di articoli, programmi televisivi, scandali, gossip, grossomodo sempre uguali, sempre costruiti intorno allo stesso schema, ma che evidentemente, chissà perché, funzionano ancora. Ribadisce in fondo Morgan, proprio col suo esempio, che se c’è una parola svuotata d’ogni significato e lascito romantico questa è “genio”, già triturata a dovere dall’incursione delle avanguardie storiche e poi da Mario Monicelli con “Amici Miei” (“che cos’è il genio? E’ fantasia, intuizione, colpo d’occhio e velocità d’esecuzione”). Ma è chiaro che la nostra tradizione è anche inseparabile dal culto del genio, sia esso rinascimentale, dannunziano, futurista o contestatario-fracassone. Il sodalizio Morgan-Sgarbi è in questo senso fondamentale. Morgan e Sgarbi sono i Jack Lemmon e Walter Matthau della mitomania artistica, del talento che si compone e decompone in continuazione, con una relazione amore-odio naturalmente anche molto complicata, bipolare, con litigate furibonde nella chat “Rinascimento Dissoluzione”, dove Morgan blocca a ripetizione qualcuno.
Ma che sia “genio tormentato” à la Morgan, o genio parastatale-ministeriale à la Sgarbi, l’egomaniaco è comunque un personaggio-chiave della commedia televisiva. Perché entrambi, l’egomaniaco e la televisione, si cercano, si piacciono, hanno bisogno uno dell’altro.
Qui le tipologie sono davvero varie. Nell’album di famiglia del genio inclassificabile e irrequieto spicca per esempio il magistero di Freccero, “genio della tv” in passato, inventore della “controprogrammazione”, quindi sempre più genio incompreso e incomprensibile. Deleuziano, debordiano, foucaultiano, poi solo frecceriano, distopico-paranoico, risucchiato da simulacri e simulazioni, col trip assoluto del complotto mondiale delle élite contro il popolo, e tutto un “filone malthusiano”, come dice lui, che “fa paura”. Anche Freccero col ciuffone ribelle come Morgan e una gran voglia di indottrinare e arringare. Ma naturalmente rovesciando cliché, disertando luoghi comuni e stracciando il green pass. Freccero che torna dopo tanti anni su Rai Due, e sfodera il cineforum in prima serata, spiegando, illustrando, sviscerando “Ultimo tango” di Bertolucci, mettendosi davanti al film per mezz’ora, snocciolandoci intorno tutta una “problematica”, una “poetica”, tantissimi “in qualche modo” (“c’è la scena del burro in cui in qualche modo Brando stupra Maria Schneider”; “c’è la vita che “in qualche modo è un essere per la morte, come dice Heidegger”).
E poi c’è Scanzi, con sui si apre il filone dell’egopiacione, per nulla tormentato, anzi perfettamente a suo agio nel ruolo. Una grande, smisurata passione per sé stesso, anche lui col demone della musica e della pedagogia musicale, anche lui in Sicilia proprio quest’estate con uno spettacolo in cui, come Morgan, raccontava l’opera di Franco Battiato, ma senza insultare nessuno. Autoproclamatosi “narcisista patologico (“un ego che fa provincia”), immortalato ormai nel pannellone del Fatto Quotidiano tra i miti del rock, Scanzi “vede la luce” quando scopre l’egocentrismo: “All’Università ad Arezzo ho iniziato a piacermi e a scoprire che piacevo. Cominciai a provarci con le ragazze: nove su dieci, a sorpresa, accettavano di venire a cena con me”. E poi ancora, “diventai rappresentante della Facoltà di Lettere. Il primo anno andai in assemblea indossando una maglietta bianca con il mio numero di cellulare stampato sopra, e la scritta: ‘Donne, chiamatemi’”. Ammette di avere la “sindrome della soubrette”, di immalinconirsi perché le donne vanno a letto con lui “perché provano per me un’attrazione intellettuale e non perché sono bello”, ma anziché autocertificarsi “genio” si occupa del genio degli altri. “Geni” sono Van Basten, Gaber, Battisti, Steve Ray Vaughan, naturalmente Battiato e anche Travaglio. Scanzi è invece un genio ben temperato. Non trascende, non dà di matto, si è anzi immolato per la patria vaccinandosi con AstraZeneca, saltando le liste di attesa, certo, ma solo per testarne l’efficacia (“una larga parte degli italiani dovrebbe ringraziarmi”, disse).
Quando l’egolatria e la mitomania e l’autocertificazione di vittima di un sistema e un pensiero troppo gretti per capire esondando, allora ecco che arriva puntuale il paragone con Gesù, e nei casi gravi la piena identificazione. “Lo hanno messo in croce perché era famoso, era molto carismatico, lo collego a me”, dice Morgan. Portato a via a forza dal Parlamento, dopo una seduta furiosa, Sgarbi si paragona al “Cristo morto” di Raffaello, e le due immagini, in effetti, sono assai simili. Ma si paragonano a Gesù anche Trump, Bolsonaro, Augusto Minzolini presentando le sue dimissioni in Senato, la poliziotta No vax, Nunzia Schillirò, perché come lei, “Gesù è stato ucciso solo perché aveva manifestato il proprio pensiero”. Carmelo Bene che intitolava la sua autobiografia, “Sono apparso alla Madonna”, senza neanche scomodare Gesù, era in fondo il più modesto di tutti.