(frasco) Per capire l’economia italiana e quindi cosa bolle nella pentolaccia delle autonomie occorre leggersi questo articolo di Cingolani. Due terzi della popolazione italiana si accalca in cinque grandi aree metropolitane. Il vecchio assetto non c’è più, il nuovo è confuso e lacerante, intanto si perde un’altra occasione per riformare il paese seguendo dove vivono, cosa fanno e di che cosa hanno bisogno gli italiani.
La punta meridionale dominava il mar Tirreno: Genova, vele e cannoni, poi acciaio e cannoni. A nord Torino, la capitale dell’auto, la macchina che ha cambiato il mondo secondo il Mit di Boston. Poco più a est collegata con un asse perfetto dall’autostrada della Fiat, Milano, la capitale del Capitale, manifattura, borsa, banche, editoria, cultura, politica, perché dai tempi dell’impero (quello romano) Mediolanum ha sempre invidiato l’Urbe eterna e l’ha più volte sfidata. Che cosa fosse il triangolo industriale, mito e realtà dell’Italia diventata moderna, non si insegna più nemmeno a scuola. Il porto di Genova ha ceduto il primato a Trieste. Torino non ha ancora consumato il lutto: difficile riprendersi dopo la diaspora della Fiat. Resta Milano, ma non è più la stessa, cambiata in meglio con le sue torri di vetro e acciaio, in peggio con la sua identità multipla sempre in cerca del punto di gravità. Il triangolo s’è allungato a est e nell’ultimo ventennio del secolo scorso era diventato una fettuccia che arrivava fino a Treviso dove regnavano i Benetton. In una geometria non più euclidea, sono emersi i distretti che, come le linee dei frattali, hanno ripetuto sempre più in dettaglio le curve, le asperità, gli anfratti nell’Italia del piccolo è bello. Il grande crac finanziario del 2008, che dopo un paio d’anni ha portato il paese sull’orlo del fallimento, ha disegnato una diversa mappa economico-sociale, una carta ancora alla ricerca della sua migliore rappresentazione, anche politica.
Un altro triangolo dell’industria si sta affermando, in parte è il vecchio che si rinnova, in parte qualcosa di inatteso. Potremmo chiamarlo il triangolo delle tre B: Bergamo, Brescia e Bologna la quale sempre più diventa il vertice che, come nella fisica dei conduttori, accumula una carica maggiore e poi la diffonde attorno a sé. A Bologna e provincia c’è il più alto tasso di occupazione dopo Milano, da lì a Modena si snoda la Motor Valley e da lì a Parma la Food Valley. Bologna con i suoi colossi della distribuzione, della finanza, delle infrastrutture. Bologna la dotta con l’università più antica del mondo occidentale. E Bologna la grassa, quella della mortadella chiamata “bologna” da Milano a New York, che ha da tempo abbandonato la palandrana del pingue dottor Balanzone per indossare la grisaglia degli affari. Un appassionato di musica potrebbe dire che il salto quantico è avvenuto nella cultura popolare prima che nell’economia quando, lasciato sull’aia il ballo liscio è esploso nelle piazze il rock all’italiana. Ma giriamo il dilemma agli studiosi.
A Bologna e provincia c’è il più alto tasso di occupazione dopo Milano. Cambia senza posa, diventa flessibile, persino fluida
Bologna non rimpiazzerà mai Milano, sia chiaro, né Milano vuol farsi rimpiazzare: cambia senza posa, diventa flessibile, persino fluida oggi che tutto si è liquefatto, oggi che entriamo in un universo gassoso dove l’intelligenza è artificiale. In questo mondo a geometria sempre variabile, proprio la sua natura multiforme ha consentito a Milano di sfuggire al destino di Torino. Niente più Alfa Romeo, addio alla vecchia Pirelli, al Tecnomasio italiano (poi Brown Boveri), nato nel 1863 per costruire treni e tram, insomma alle imprese che hanno fatto la storia. E benvenuti a BlackRock, a Kkr e a tutti i loro simili. Se ci perdiamo tra i ricordi non capiremo quel che ci circonda né a Milano né, tanto meno, a Bologna, quartier generale di una nuova dimensione economica nella quale tra industria e servizi non c’è più soluzione di continuità. Prima in classifica per dimensione è la ex municipalizzata, oggi Hera, che con luce, gas, ambiente, energie rinnovabili fattura oltre 20 miliardi di euro e se la batte con la A2A di Brescia (appunto) la quale ha assorbito anche la vecchia azienda milanese. Arriva subito dopo Conad, numero uno in Italia nella grande distribuzione che ha varcato anche lei la soglia dei 20 miliardi di euro l’anno. Al terzo posto Unipol (15 miliardi) e Coop Italia (14 miliardi). Insomma falce e carrello, le cooperative rosse, allora non c’è niente di nuovo sotto il sole. Rosse? Forse un tempo. Cooperative sì, ma quotate in borsa. Unipol guidata da Carlo Cimbri è un gruppo finanziario tra i primi su scala nazionale che nelle assicurazioni (UnipolSai) compete con il colosso Generali ed è entrata anche nelle banche attraverso il controllo di Bper, la ex Banca popolare dell’Emilia Romagna, e della Popolare di Sondrio. La sua dimensione non è più territoriale; pur restando ancorata alle origini, è già da tempo nazionale. Ha una posizione importante in Mediobanca, dove ha ereditato la quota della Sai di Ligresti e sostiene il vertice guidato da Alberto Nagel. Proprio Bper viene data adesso come protagonista nel risiko bancario per arginare, con il tanto atteso “terzo polo”, il duopolio di Intesa e Unicredit. Nella nuova Unipol, insomma, possiamo collocare il cervello finanziario del triangolo Emiliano-Lombardo. E la manifattura?
Conad, numero uno in Italia nella grande distribuzione, ha varcato la soglia dei 20 miliardi di euro l’anno. Cooperative sì, ma quotate in Borsa
La lista delle eccellenze bolognesi vede la Lamborghini (fa capo a Volkswagen-Porsche attraverso la Audi) con un giro d’affari da 2,5 miliardi di euro l’anno, che guida i campioni dei motori (spicca la Ducati di Borgo Panigale entrata anch’essa nel colosso tedesco dell’auto) e si proietta nella ormai mitica Terra dei motori. Viaggiando verso nord troviamo la Ferrari e la Maserati a Modena, la Dallara tra Reggio e Parma, mentre la Romagna eccelle nelle due ruote. Non contano solo le grandi firme, ben 16.500 aziende per lo più piccole e medie occupano 90 mila lavoratori e producono oltre 20 miliardi l’anno. Non mancano i luoghi iconici: ben quattro autodromi, il più grande è a Imola, mentre nell’estrema punta sud-orientale, a Misano Adriatico, c’è il circuito storico tornato nel Motomondiale nel 2007 dopo importanti lavori di ammodernamento. La Motor valley ha anche la sua fabbrica dell’avvenire: il 21 giugno è arrivato a Maranello il presidente della Repubblica e proprio Sergio Mattarella ha tagliato idealmente il nastro del nuovo stabilimento per produrre la Ferrari elettrica, un “e-building” progettato dall’architetto ambientalista Mario Cucinella allievo di Renzo Piano. Immagine, certo, che non può non contare, ma anche sostanza.
Nuova Castelli, di proprietà di Lactalis, è prima esportatrice mondiale del parmigiano reggiano. Barilla primeggia nel mondo per la pasta.
Abbiamo interrotto il nostro catalogo industriale, però tra i punti forti della nuova Bologna va collocata la Ima (Industria macchine automatiche) fondata nel 1961 che oggi fa capo ad Alberto Vacchi e fattura circa due miliardi di euro con la lavorazione e l’imballaggio di prodotti farmaceutici e alimentari. Possiede 60 mila macchine, ha 53 stabilimenti in 80 paesi e ha aperto il capitale a una banca americana guidata da Byron Trott, uomo di fiducia di Warren Buffett, l’oracolo di Omaha. Sono due settori chiave la farmaceutica con l’Alfa Sigma fondata a Bologna nel 1948 e l’alimentare con Granarolo, la cooperativa di produttori di latte e derivati che avrebbe voluto comprare Parmalat dopo la bancarotta di Calisto Tanzi, ma venne bloccata per motivi politici. Così l’azienda parmense finì alla famiglia francese Besnier proprietaria del gruppo Lactalis che oltre a Galbani, Invernizzi, Locatelli, Cademartori dal 2019 possiede la Nuova Castelli prima esportatrice mondiale del Parmigiano Reggiano. Dal latte al formaggio, la filiera è completa. Se Bologna è patria della mortadella, Parma lo è del formaggio che da lei prende il nome, anche se deve dividerne la paternità con Reggio. Nessuno invece può togliere a Zibello il primato del culatello. Le propaggini salumiere in verità arrivano fino al piacentino, mentre tortelli, tortellini, cappelletti e ravioli si diffondono in tutta l’area come la nebbia d’autunno che rende più dolce il cosciotto di maiale. Barilla primeggia nella pasta non solo qui o in Italia, ma ormai nel mondo intero, rigorosamente in mano alla famiglia, lontana dalla borsa, ha raggiunto un giro d’affari attorno ai cinque miliardi di euro. Fondata nel 1877 da Pietro, discendente di panettieri, è nello stesso tempo permanenza e discontinuità (retorica Mulino bianco a parte). Nell’insieme la Terra del cibo ha ricavi inferiori alla Terra dei motori (otto miliardi di euro, meno della metà), ma anch’essa è organizzata in filiere che sono l’evoluzione dei distretti dove prevalgono le aziende familiari. Un terzo circa delle imprese industriali medio-piccole ha sede nei distretti, secondo l’indagine di Mediobanca. Il primo è quello delle valli bresciane, metallurgia e metalmeccanica. Poi arriva Lecco con la metallurgia. Il distretto friulano veneto (componentistica ed elettromeccanica). Al quarto posto Guastalla, Reggio Emilia, Vignola. Se ci giriamo verso sud non possiamo dimenticare che Bologna è il vero terminale anche della dorsale adriatica. Basta avere il coraggio o la sfortuna di avviarsi lungo l’autostrada A14 per ottenere la conferma fisica di questa nuova mappa del capitale.
Per spiegare la nostra formula delle tre B, dobbiamo aprire la bussola e puntare a nord, partendo da Bergamo la città più colpita dalla pandemia. Tutto sembrava compromesso, crollava una certa quiete pasciuta e sonnolenta che aveva superato anche alcuni choc non indifferenti: l’addio della Italcementi dei Pesenti era stato vissuto come un tradimento; poi la scomparsa delle banche locali ingoiate dai grandi gruppi nazionali (come Ubi acquisita da Intesa Sanpaolo); e ancora la trasformazione socio-culturale con una presenza di stranieri che ha superato ormai un quinto della popolazione. La città orobica storicamente contesa da Milano e da Venezia, con le sue mura inespugnabili e la sua soddisfatta ricchezza, poteva soccombere sotto il flagello del Covid-19, invece ha trovato le energie per risollevarsi e cambiare. L’occasione arriva nel 2020 con la candidatura a capitale italiana della cultura presentata mentre anche Brescia aspirava al riconoscimento. C’è una storica rivalità tra le due città separate da appena 52 chilometri, perché non superarla e candidarsi insieme? Il sindaco Giorgio Gori e l’allora primo cittadino bresciano Emilio Del Bono, anche lui del Pd, decidono di gettare alle ortiche le beghe di campanile e vincono la scommessa. Si muovono le istituzioni culturali, si muove Confindustria; i due municipi malati di quel campanilismo che impiomba l’Italia, decidono di collaborare. Un impulso importante viene a Bergamo dalla Brembo di Alberto Bombassei e dalle iniziative come Kilometro rosso, un incubatore d’impresa lungo mille metri. Brescia ha vissuto il lungo addio dei Lucchini che primeggiavano nel tondino di ferro, e ha trovato nuovi campioni come la Feralpi guidata da Giuseppe Pasini che ha innovato l’acciaio per l’edilizia, la Duferco di Gozzi, l’Alfa Acciai di Donati e Stabiumi, la Carlo Gnutti (sistemi di iniezione). La siderurgia italiana è la seconda in Europa e la prima per produzione da forni elettrici. A Brescia si è affermata anche la Copan leader mondiale nei tamponi e nei sistemi per la biologia molecolare. E poi c’è la corsa alle energie rinnovabili. Insomma, la Leonessa d’Italia ha trovato la sua nuova strada e il matrimonio con Bergamo può aumentare il volume di fuoco e l’impatto non solo economico. Due città cattolicissime, anche se su filoni diversi (più progressista la Brescia di papa Montini), entrambe governate dal centrosinistra.
Se prendiamo la mappa delle ultime amministrative non può non colpire quel triangolo “rosso”. Prevale il partito delle Ztl? Forse
Dove ci porta il nostro viaggio? Forse dritti dritti dall’industria al governo del paese? È sempre rozzo trasporre i cambiamenti strutturali nella loro diretta rappresentazione politica. Ma se prendiamo la mappa delle ultime elezioni amministrative non può non colpire quel triangolo “rosso” che congiunge Milano a Padova attraverso Bergamo e Brescia, mentre a sud, attraverso Cremona, Pavia, Parma riconquistata dopo un quarto di secolo, si dirige verso la Romagna. Prevale il partito delle ztl? Forse. Lasciamo la risposta ai politologi, agli allievi di Joseph La Palombara e Domenico Fisichella, ma se la nostra cartina socio-economica è corretta dobbiamo cambiare gli occhiali e guardare più lontano del cortile di casa. Questa inadeguatezza prospettica appare molto evidente nel contrasto sull’autonomia differenziata. Prendiamo la legge che fa venire il mal di pancia al sud e infiamma le opposizioni. È cominciata già la corsa alla diligenza, con il Veneto e la Lombardia che si contendono il primato nell’accaparrarsi più poteri possibili. Forse non funzionerà mai come sostengono autorevoli costituzionalisti da posizioni diverse. I cacicchi del sud, quelli di sinistra e quelli di destra, non hanno tutti i torti. Ma sono 40 anni che la pentolaccia delle autonomie sta sul fuoco. La riforma del titolo V è stata fatta dal centrosinistra come passaggio verso un nuovo assetto che non ha mai trovato una forma coerente. In Parlamento giacciono (nomen omen) progetti arditi, presentati soprattutto dalla sinistra per nuovi accorpamenti. I confini tracciati nel dopoguerra non hanno più nessun senso socio-economico. Da Bari a Rimini un’unica lunghissima area urbana lungo la costa adriatica attraversa cinque regioni, Puglia, Molise, Abruzzo, Marche, Emilia Romagna, nella quale la gente vive e lavora in ambienti e in modi sempre più simili. Persino l’architettura s’assomiglia con l’alternanza di casette e officine. Due terzi della popolazione italiana si accalca in cinque grandi aree metropolitane. In che modo Milano può omologarsi alla Lombardia e Roma al Lazio?
La Lega che sventola le sue bandierine locali è pura sagra paesana, i Fratelli nazionalisti che cedono per opportunismo perdono la faccia non la poltrona, ma non sono più avanti le opposizioni che vogliono salvare lo status quo anziché contrapporre una visione coerente di come ridisegnare l’Italia del nuovo secolo. Il vecchio assetto non c’è più, il nuovo è confuso e lacerante, intanto si perde un’altra occasione per riformare il paese seguendo dove vivono, cosa fanno e di che cosa hanno bisogno gli italiani. Il nuovo triangolo industriale (così come il vecchio) è orfano di grandi imprese, dei campioni nazionali o meglio internazionali in grado di fare da aggregatori e da moltiplicatori di ricerca e innovazione. La geografia socio-politica ha bisogno anch’essa di campioni in grado di tenere insieme un tessuto che mostra sempre più i sintomi della disgregazione. Politica ed economica, l’alfa e l’omega della società.