(frasco) Il 14 giugno 2007 Beppe Grillo lancio’ l’idea del Vaffanculo Day (o V-Day), una giornata di mobilitazione pubblica per la raccolta delle firme necessarie a presentare una legge di iniziativa popolare che mirasse a introdurre le preferenze nella vigente legge elettorale e impedisse la possibilità di candidare in Parlamento i condannati penali o chi avesse già espletato due legislature. Nacque quel fenomeno che va sotto il nome di populismo (accolto nel 2018 alle politiche dalle plebi meridionali e fatto proprio dai Travaglio e estremisti di tutti colori da diventare bipopulismo rossobruno che dir si voglia).
Pertanto sono ben 17 anni che a quelli come me che sono avversari dei populisti tocca esser dipinti in caricatura come “fissati” nell’ostracismo a Peppiniello di Volturara Appula. Come diceva Jessica Rabbit nel film ” Chi ha incastrato Roger Rabbit””Io non sono cattiva, e’ che mi disegnano cosi'”.
In realta’ sono ben 17 anni che la proposta politica che intenderebbe passare per realista e pragmatica agognando un polo di sinistra che unito (campo largo) sconfigga la destra fascista, si rivela qualcos’altro. Cosa sia lo spiegano due articoli di Mario Lavia e Francesco Cundari. La sinistra italiana vinse una (prima) volta su Berlusca con Prodi e nonostante tutto intende sempre, come coazione a ripetere, replicare quell’ammucchiata senza mai voler imparare dagli errori. Come se il tempo si fosse fermato 28 anni fa (La fine della Storia?) e il 2024 fosse uguale al 1996.
MARIO LAVIA Scampagnata larga Finita la scuola con un bell’esame di maturità sull’Europa, Firenze, Bari e Perugia, Elly è tornata a fare bisboccia con la comitiva di compagni. Si balla, si canta, tutti insieme, la fase adulta, quella di un’ottima campagna elettorale, è già alle spalle: e ora ci si diverte! Poco importa che s’avanzino i fascisti da tutte le parti, l’Europa stantuffi, Joe Biden collassi e le guerre non cessino. Non si tratta di fare i seriosi. Ma di essere seri.
Tralasciamo qui gli indiavolati balletti al Pride milanese, Elly Schlein li ha sempre fatti e sempre lì farà (oddio, magari qui c’era un pregiudzio antiebraico che avrebbe meritato qualche replica se non la diserzione dell’evento), ma quello che più lascia stupefatti è l’infantilismo politico di «voler fare come in Francia», il Fronte popolare – wow! –, senza capire che la democrazia francese sta vivendo il dramma politico più acuto da settant’anni in qua e che il Noveau Front Populaire non e’ la Woodstock della sinistra ma un agglomerato improvvisato reso necessario dal fantasma dell’estrema destra: non è una festa, è l’ultima medicina a disposizione.
FRANCESCO CUNDARI La strategia dell’usato insicuro
Dal revival dell’Unione a Biden, la sinistra ha fiducia nel passato.
Fino a pochi giorni fa ero convinto di avere capito tutto. Mi sembra che bastasse mettere in fila i fatti. L’incapacità della destra di nascondere la sua natura e le sue intenzioni, a cominciare dal desiderio di fare cappotto con la riforma costituzionale. Il fatto che una simile tentazione avesse già portato alla rovina numerosi e anche più scaltri predecessori di Giorgia Meloni, con l’aggravante, stavolta, di un contesto interno e internazionale fatto di saluti romani in sezione, amici ungheresi in Europa e golpisti americani a un passo dalla Casa Bianca. La spinta a coalizzarsi che tutto questo avrebbe prodotto nel fronte delle opposizioni, cementato dalle ottime ragioni della battaglia costituzionale. Non che non vedessi tutti i limiti dell’attuale leadership del Partito democratico e del modo in cui si era arrivati fin qui, ma i passi avanti mi sembravano indiscutibili, almeno se misurati a partire dalla scorsa legislatura, e in particolare dal punto più basso mai raggiunto dalla sinistra italiana, con l’esaltazione di Giuseppe Conte quale unico possibile candidato alla guida del governo. Dopo i risultati delle europee, il ruolo di Conte e del Movimento 5 stelle in una ipotetica alleanza appariva inevitabilmente ridimensionato, non molto diverso da quello della Sinistra Arcobaleno nel 2006. E questo, in conclusione, mi pareva lo sbocco inevitabile di tutto: una coalizione analoga all’Unione con cui Romano Prodi vinse allora le elezioni per un soffio, agonizzando poi al governo per circa due anni, prima di riconsegnare Palazzo Chigi alla destra, regalandole (con vari aiutini su cui ora non mi dilungo) una vittoria elettorale schiacciante.
Eppure il Pd era nato proprio per superare la brutta esperienza dello schema frontista.
Mi sembra utile ricordare, visto l’entusiasmo frontista serpeggiante qua e là, che la nascita del Pd è stata raccontata per anni proprio come la risposta alla crisi del centrosinistra prodiano, come l’antidoto a quel modello di coalizione ingestibile e impresentabile, all’alleanza dal programma elettorale di 281 pagine, al governo dei cento sottosegretari, ai tavoli di coalizione da duecento posti in cui si discuteva per giorni senza cavare un ragno dal buco. A riprova che non si impara mai niente da niente. E tuttavia anch’io, fino a pochi giorni fa, mi ero convinto che alla fine dei conti un simile esito sarebbe stato il male minore, almeno nell’immediato. Ma dopo avere visto il doloroso spettacolo di Joe Biden incapace di tenere il filo del discorso nel dibattito con Donald Trump, e il caos che ne è seguito nel fronte democratico, ho cominciato a ripensarci. Soprattutto, mi è sembrato di vedere un tratto comune – potremmo chiamarla fiducia nel passato, o strategia dell’usato insicuro – tra la scelta dei democratici americani di accanirsi sull’anziano presidente e la volontà dei democratici italiani di ripercorrere ostinatamente l’unico schema con cui la sinistra abbia vinto le elezioni negli ultimi trent’anni, finendo però sempre per andare in pezzi un minuto dopo. E ho cominciato a pensare che questa volta potrebbero non essere così fortunati.