Bisogna risalire al piè veloce Achille e all’Iliade per capire ciò che sta accadendo oggi in Francia, ciò che vi accadde nel 2005, quando i No nel referendum seppellirono la Costituzione europea, e pochi mesi dopo con i roghi e le rivolte delle banlieues, e nel 2021 con i Gilets jaunes. Ma anche per capire i «vent’anni di rabbia» che scuotono l’Occidente dall’inizio del secolo, dal movimento No Global al Vaffa day, da Occupy Wall Street al BlackLivesMatter, alla Brexit e all’assalto al Campidoglio.
La suggestione è contenuta nel breve ma illuminante libretto di uno scienziato della politica (Carlo Invernizzi-Accetti, «Vent’anni di rabbia – Come il risentimento ha preso il posto della politica»). La novità della sua analisi sta nel riconoscere alla rabbia un valore etico-politico, nonostante che la nostra cultura la condanni come un sentimento irrazionale, all’interno della più vasta critica delle emozioni che ci hanno lasciato in retaggio la morale stoica e il razionalismo. Per Seneca la rabbia era una «brevis insania», per il medico Galeno un eccesso di calore provocato da accumulo di sangue nel cuore, per il cristianesimo l’ira è uno dei vizi capitali, per la morale borghese è nemica degli affari e della prosperità. Com’è allora che, nonostante livelli di benessere materiale e di libertà individuale senza precedenti, da vent’anni i popoli in Occidente sono così arrabbiati?
Qui torna utile Achille. E sì, perché prima della «polis» e della politica, la rabbia dell’eroe greco appariva a Omero un fatto non solo naturale ma per certi aspetti perfino nobile, al punto da essere il motore della storia. Per Aristotele è piuttosto l’incapacità di provare rabbia a rappresentare un segno di «servilità», perché bisogna saper reagire al sopruso. E infatti due volte nel poema Achille si ribella, con quella che Vincenzo Monti, nella sua traduzione classica, chiama «l’ira funesta». La prima quando Agamennone gli sottrae la schiava Briseide; la seconda quando Ettore uccide l’amico Patroclo. In entrambi i casi Achille non si arrabbia tanto per il danno subito: avrebbe potuto avere in cambio qualsiasi altra schiava, e l’amico era morto nel modo per lui più onorevole, in battaglia. Achille se la prende, e con la sua reazione cambia entrambe le volte le sorti della guerra, per l’offesa arrecatagli, per il mancato riconoscimento del suo status, per l’umiliazione del declassamento subita da parte di Agamennone, che lo tratta «come uno straniero qualunque» (parole sue), e da parte di Ettore, che ha ucciso Patroclo mentre questi indossava le armi di Achille, ingenerando così un dubbio sulla sua fama di «invincibile».
Questa stessa forma di umiliazione da mancato riconoscimento, da declassamento, è forse anche all’origine della rabbia popolare verso l’establishment e la globalizzazione (gli «angry white men»). La ribellione, in piazza o nelle urne, non è solo, e forse non è neanche tanto, motivata da ragioni economiche, ma nasce da uno choc culturale: dalla sensazione di essere diventati «invisibili», dimenticati come i «forgotten men» di cui si fa alfiere Trump, considerati «deplorables» e sfigati dalle élite. Per questo si sentono «losers», i perdenti della globalizzazione, come nella metafora del filosofo Peter Sloterdijk. E per questo i loro paladini fanno così spesso riferimento a concetti di valore e dignità: «uno vale uno», «America first», «prima gli italiani», «BlackLivesMatter», tutte formule che chiedono un riconoscimento, manifestano un bisogno di attenzione.
Ci sono anche altre conseguenze del paragone con l’«ira funesta». Per esempio: che la rabbia è una molla all’azione, perciò è produttiva. Che mira a ottenere vendetta, ad annullare il torto subito, e dunque esprime un’energia negativa, perché vuole cancellare ciò che l’ha provocata. Che cerca una vendetta appariscente, un atto dimostrativo che sia spettacolare. È per questo anche fine a sé stessa, trova cioè in sé la propria soddisfazione. È un sentimento manicheo: non tollera i grigi, non è sensibile alla complessità e alle sfumature. Denuncia però anche la fragilità di chi la prova: chi non è sicuro del proprio status è più toccato dalle ingiurie proprio perché ha paura che abbiano colto nel segno. E infine — ma questo lo avevamo capito già, dopo il declino del populismo di sinistra che ha lasciato sul campo solo quello di destra — è un sentimento conservatore: non mira a cambiare l’ordine delle cose ma a ristabilire quello precedente, percepito come violato.
Ora che ne sappiamo di più, sappiamo anche come lenire questa rabbia? Ovviamente no. Una cosa è capire, un’altra è guarire. Però sappiamo che l’«ira funesta infiniti addusse lutti agli Achei», e potrebbe faro lo stesso con gli Europei. E sappiamo anche che le due ricette fin qui sperimentate, la tecnocrazia e il populismo, non hanno funzionato. La prima perché non basta il «buon governo» a rendere più accettabile il mancato riconoscimento; il secondo perché concentra il potere nelle mani di nuove élite e di capi carismatici, che illudono gli arrabbiati di mettere fine alla loro esclusione ma presto li deludono.
La soluzione secondo Carlo Invernizzi-Accetti, autore di questa analisi, starebbe nel dare risposta alla forte domanda di partecipazione politica che proprio questa rabbia popolare mostra, e che invece non riesce a uscire dalla bolla dei social nei quali si riproduce e si moltiplica. Una ripresa della mediazione politica, in forme nuove. Ma questo è un altro discorso, e si vedrà.