Strage di piazza Fontana, chi è Tullio Fabris: l’elettricista veneto che svelò i due nomi dei colpevoli

Il pomeriggio del 12 dicembre 1969, intorno alle 16,30, una bomba esplose all’interno della Banca nazionale dell’agricoltura in piazza Fontana a Milano, provocando 17 morti e oltre 88 feriti. Poco prima, nella vicina sede della Banca commerciale di piazza della Scala, era stato trovato un ordigno che non causò vittime e fu fatto brillare dagli artificieri. Quasi in contemporanea, a Roma scoppiarono altre tre bombe tra piazza Venezia e via Veneto, due all’Altare della patria e una alla Banca nazionale del lavoro, che ferirono 16 persone. Un’azione coordinata che portò a inchieste e processi che hanno vagato — per ragioni procedurali più o meno fondate — tra Milano, Roma, ancora Milano, poi Catanzaro, Bari e di nuovo Milano, conclusisi solo nel 2005.

I nomi dei responsabili della strage di piazza Fontana — l’attentato che diede ufficialmente inizio alla cosiddetta «strategia della tensione», in realtà già avviata nei mesi precedenti — li svelò un elettricista veneto nel 1972, tre anni dopo l’esplosione. Si chiamava Tullio Fabris. Disse che nel settembre ‘69 l’ideologo neofascista Franco Freda, un cliente divenuto suo buon amico, gli chiese aiuto per acquistare e realizzare un certo numero di timer «a deviazione», come quelli utilizzati per attivare le bombe disseminate tra Milano e Roma.

Fabris parlò anche di Giovanni Ventura, ex aderente all’Azione cattolica convertitosi all’estremismo di destra transitato dal Movimento sociale italiano fino ad approdare a Ordine nuovo, e la sua deposizione divenne uno degli elementi a carico dei due imputati. Ritenuti però insufficiente dai giudici di appello prima di Catanzaro e poi di Bari, che dopo la condanna all’ergastolo in primo grado mandarono assolti Freda e Ventura dall’accusa di strage.

Le nuove rivelazioni
Vent’anni dopo un altro neofascista che frequentava i covi neri del Veneto, Carlo Digilio, un po’ infiltrato e un po’ pentito, raccontò di aver partecipato alla preparazione dell’attentato e confermò l’aiuto fornito a Freda da un elettricista. Così nel 1994 Fabris fu riconvocato da un nuovo giudice istruttore, e aggiunse ulteriori particolari. Ricordò che mentre lui illustrava il funzionamento dei congegni elettronici Freda prendeva appunti, e Ventura era presente quando il timer fu provato accendendo un fiammifero antivento.

L’elettricista disse che Freda gli aveva annunciato per dicembre «un evento importante» che doveva agevolare «un progetto di rivolgimento politico delle istituzioni nel nostro Paese, da realizzare con un colpo di Stato». Tanto che dopo la bomba di piazza Fontana lui sospettò che quei due c’entrassero qualcosa, fino ad averne la quasi-certezza nella primavera successiva, quando gli fu proposto di proseguire la «collaborazione tecnica» per altri attentati, in cambio di «buoni compensi e garanzia di impunità».
Fabris si spaventò, e dopo essersi confidato con sua moglie decise di interrompere i rapporti. Ai timori si sommarono le minacce giunte prima e dopo le testimonianze rese durante la prima indagine sulla «pista nera», di cui non parlò né agli inquirenti né ai giudici durante il processo. Aveva paura di essere ucciso.

Il racconto dell’elettricista, insieme a nuovi elementi raccolti dopo le sentenze, è uno dei principali tasselli della verità raggiunta su Piazza Fontana. Verità storica, ché quella giudiziaria è arrivata fuori tempo massimo, sebbene certificata proprio dai magistrati. L’ultima sentenza sulla bomba del 12 dicembre, pronunciata il 2 maggio 2005 ad oltre 45 anni dall’eccidio, ha confermato le assoluzioni in appello per i quattro nuovi imputati (condannati in primo grado), ribadendo però il convincimento che Freda e Ventura fossero invece colpevoli. Ma irrevocabilmente assolti dai verdetti di Catanzaro e Bari, dov’erano artatamente finiti i dibattimenti, e dunque non più giudicabili.

Fuori tempo massimo
«Sia pure in chiave meramente storica», i giudici della Cassazione hanno condiviso le conclusioni della Corte d’assise d’appello: «A Padova fu costituito, nell’alveo di Ordine Nuovo, un gruppo eversivo capitanato da Freda e Ventura, e ad esso vanno attribuiti una serie di fatti delittuosi consumati nel 1969». Compresa l’esplosione alla Banca nazionale dell’Agricoltura.

Dunque la giustizia s’è arresa, contribuendo tuttavia a consegnare al Paese un pezzo di verità su quella che viene spesso definita «la madre di tutte le stragi»; non la più grave, bensì la più importante per le conseguenze che ha avuto: dopo la catena di attentati senza vittime sui treni e in altri luoghi che avevano alimentato la «tensione» per tutto il ’69, quella bomba assassina scoppiata in pieno clima pre-natalizio, completa di depistaggio per addebitarla agli anarchici, ha segnato non solo la «strategia» di chi voleva far cadere l’Italia in un clima da golpe, ma pure la scelta di alcune frange dell’estremismo rosso di rompere gli ultimi indugi e intraprendere la strada della lotta armata che avrebbe insanguinato il cammino della Repubblica per tutto il decennio successivo, e oltre.
La mano e la regia nera sono una certezza raggiunta che non si ferma ai nomi di Freda e Ventura, né alla sigla di Ordine nuovo (ora menzionata nella targa che il Comune di Milano ha fatto incastonare nel pavimento della piazza, insieme alle «pietre d’inciampo» con i nomi delle vittime). Ce ne sono altre. Ad esempio le manovre di apparati di sicurezza e servizi segreti per sviare le indagini dai veri responsabili, e proteggerli.

Pinelli e i depistaggi
Nell’immediatezza fu costruita a tavolino la falsa «pista anarchica» che, prima ancora dell’arresto e del processo al ballerino Pietro Valpreda (scagionato solo nel 1979, e dopo oltre tre anni di carcerazione preventiva) portò alla morte del suo compagno ferroviere Giuseppe Pinelli, precipitato da una finestra al quarto piano della Questura la notte fra il 15 e il 16 dicembre, a tre giorni da un fermo divenuto illegittimo in assenza del vaglio di un magistrato. Su quella vicenda abbiamo molte meno certezze rispetto alla strage. Perché ancora manca una ricostruzione plausibile di ciò che accadde, se si esclude il «malore attivo» ipotizzato dal giudice istruttore che fissò un altro punto fermo di questa storia nera: l’assenza del commissario Luigi Calabresi dalla stanza nel momento in cui l’anarchico cadde nel vuoto. Bollato come «l’assassino di Pinelli» dall’estrema sinistra, Calabresi fu ucciso il 17 maggio 1972: un omicidio per il quale sono stati condannati quattro fra dirigenti e militanti di Lotta continua. Verità giudiziaria negata da tre dei quattro colpevoli accertati, che in questo caso fatica a diventare verità storica accettata da tutti. Mentre su Pinelli continuano a non esserci né l’una né l’altra.

Che la manovalanza nera impiegata in piazza Fontana sia stata supportata dai servizi segreti attraverso l’inquinamento di indagini e processi è sancito pure dalla condanna inflitta al generale del Sid (il Servizio informazione della Difesa, unico apparto di intelligence dell’epoca) Gianadelio Maletti per aver agevolato la fuga di un imputato, e dalle sue parziali ammissioni (dalla latitanza in Sudafrica), su complicità statunitensi. Di cui ha parlato l’ordinovista pentito Digilio, anch’esso condannato per la strage prima di morire nel 2005, giusto il 12 dicembre. Il quale, oltre a svelare il proprio ruolo di informatore per gli 007 americani ha chiamato in causa altri neofascisti dell’epoca processati, condannati in primo grado, assolti in appello e in Cassazione. Tra questi Carlo Maria Maggi, all’epoca leader di On nel Triveneto, e Delfo Zorzi, oggi cittadino giapponese.

L’identikit
Quei verdetti impediscono di estendere l’elenco dei colpevoli oltre Freda, Ventura e lo stesso Digilio, ma confermano il marchio neofascista su una strage che, come ha spiegato l’ultimo giudice istruttore che se n’è occupato, Guido Salvini, doveva prospettare «una soluzione vicina a quella adottata in Grecia nel 1967 con il golpe dei colonnelli; una svolta fortemente autoritaria a fronte dei movimenti studenteschi e sindacali dell’epoca, individuati come chiave di apertura verso il mondo comunista che avrebbe ingoiato anche l’Italia».

Incassate le sentenze definitive, Salvini ha smesso i panni dell’inquirente e ha vestito quelli dello storico, provando a individuare, dagli elementi processuali raccolti e dalle confidenze di altri personaggi legati a Ordine nuovo che avevano collaborato alle sue indagini, l’identikit di un possibile esecutore materiale della strage: un ex ragazzo all’epoca poco più che ventenne, veronese, figlio di un dirigente di banca, sul quale convergono diversi indizi. Compresa la testimonianza della fidanzata di allora. Lui stesso aveva deposto in indagini e processi sui fatti del 12 dicembre e su altri attentati neri di quella stagione, ammettendo i contatti tra On e apparati statali.

Giornalisti e scrittori ne hanno svelato l’identità, nome e cognome compaiono in articoli e libri. E’ morto nel 2019, senza potersi difendere dall’ultimo sospetto. La sua eventuale responsabilità, verosimile ma ormai difficilmente accertabile, sarebbe solo un elemento in più nel coacervo nero — e tuttavia chiarissimo — di neofascisti e spie che quel venerdì pomeriggio fece entrare l’Italia nel lungo tunnel del terrorismo.