Finalmente passo qualche giorno di vacanza nel paese più bello del mondo, il mio. Che mi ha subito accolto con uno dei suoi riti più discutibili: gli scioperi nei servizi pubblici. Appena arrivato ne ho già incontrati vari, sia nei trasporti metropolitani, sia nei treni.
Non voglio lamentarmi più di tanto perché il danno che subisco io da visitatore è occasionale e limitato, molto meno di quel che sopportate voi residenti fissi. Ma insieme con l’assenza di Uber, la liturgia degli scioperi è una delle anomalie difficili da spiegare ai tanti amici americani, che per fortuna affollano le nostre località di villeggiatura e contribuiscono al reddito della nostra industria turistica.
Immagino che anche questa stagione turistica sarà eccellente, come l’ultima. Il tutto esaurito è già pressoché certo in molti luoghi. Gli incassi saranno buoni. Aiuta il dollaro forte, in quanto aumenta il potere d’acquisto e la capacità di spesa degli americani. Però non basta godersi la Bengodi finché dura, bisogna pensare al futuro. Perciò una riflessione sugli scioperi – e su Uber – mi pare opportuna.
Sia chiaro: il turista americano in questo periodo ha ben altri problemi in testa, e gli vengono ricordati in continuazione anche dai suoi interlocutori italiani. Non passa giorno senza che qualcuno gli chieda: «Quand’è che si decide a ritirarsi Biden?», o: «Ma com’è possibile che rischiate di eleggere un’altra volta Trump?». Bombardato da queste domande (legittime), angosciato sul futuro del proprio paese, che il turista in questione sia democratico o repubblicano, in questo periodo non si sente molto fiero del proprio paese. Tantomeno si sente di poter criticare il paese che lo ospita. Osserva e tace.
Però se ha spirito di osservazione e pragmatismo, il visitatore americano deve constatare questa ovvietà: la scioperomania nel settore pubblico non serve a nulla. Anzi, contribuisce a impoverire il paese, in particolare i suoi lavoratori dipendenti. Una spassionata analisi della realtà dice questo. In Italia si sciopera spesso e volentieri, in America pochissimo: ci abito ormai da un quarto di secolo e faccio molta fatica a ricordarmene uno solo, di sciopero dei mezzi pubblici. No, in 24 anni di vita americana non ho mai dovuto rinunciare a un metrò o a un treno, a un autobus o a un aereo per causa sciopero. Se gli scioperi servissero a migliorare le condizioni dei lavoratori, quelli italiani dovrebbero essere tra i meglio pagati del mondo. Invece è vero il contrario. Stipendi e salari americani sono molto più alti, in certi casi fino al doppio o al triplo. Anche dopo aver depurato le retribuzioni dal costo della vita locale (che è più caro in America), resta vero che si guadagna molto di più oltreoceano. È una delle ragioni per cui continua un’emigrazione dall’Italia verso gli Stati Uniti e non il contrario.
Dunque scioperare non ottiene affatto il risultato che si prefigge, semmai ottiene il contrario. Un paese affetto da scioperomania come l’Italia continua ad essere anche afflitto da basse remunerazioni. Una delle possibili spiegazioni, soprattutto nei servizi pubblici, è che gli scioperi danneggiano solo ed esclusivamente gli utenti, la cittadinanza in generale: la quale non ha alcun potere decisionale sulle retribuzioni di chi sta scioperando. Il paragone approssimativo che sto facendo tra Italia e Stati Uniti dà gli stessi risultati altrove: se applicato, per esempio, a Francia e Germania. I francesi scioperano molto di più, ma sono i tedeschi ad essere pagati nettamente meglio. Come la mettiamo.
La risposta non può essere «scioperiamo di più proprio perché siamo pagati di meno». No, perché la scioperomania italiana o francese dura da mezzo secolo e ancor più. Non avendo dato risultati, poiché continuano ad essere pagati meglio quei paesi dove l’arma dello sciopero è usata con estrema parsimonia, siamo nell’ambito di quella famosa definizione della pazzia: continuare a fare sempre la stessa cosa, convinti di poter ottenere un risultato diverso da tutte le volte precedenti.
La pazzia forse in questo caso è solo un’altra definizione dell’ideologia. I vertici sindacali in Italia e in Francia sono avvinghiati a un’ideologia che è come una religione: si fonda sui dogmi e sulla fede, pertanto è impermeabile alla realtà, si disinteressa altezzosamente dei risultati (pessimi) ottenuti.
Vengo a Uber, altra faccia della stessa medaglia. Io viaggio molto, per lavoro mi posso definire un viaggiatore permanente. Uber è un mio strumento quotidiano, non solo in ogni angolo degli Stati Uniti; l’ho usato pure per spostarmi in Messico e in Brasile, in Sudafrica e in Arabia saudita, in Egitto e in Qatar, a Taiwan. In Cina funziona un’app equivalente, naturalmente autoctona ma identica a Uber. L’unico luogo dove non posso usarlo è a Roma o a Milano. In Italia Uber è stato sottoposto a tali restrizioni da risultare carissimo, un servizio quasi solo alla portata di ricchi turisti americani che non badano a spese. Non entro nel merito delle ragioni avanzate dalla lobby dei tassisti italiani. Mi limito a constatare che una lobby dei tassisti esiste anche a New York, a Bruxelles, a Rio de Janeiro, a Johannesburg, a Taipei: ribadisco che in tutti questi luoghi di recente ho usato Uber, oltre ai vecchi taxi.
In Italia sento che molti utenti simpatizzano con gli argomenti dei tassisti e associano la multinazionale americana Uber alla parola maledetta che è «sfruttamento». Non voglio difendere il modello Uber in tutti i suoi aspetti. Ho degli amici immigrati africani che lavorano come autisti Uber a New York, e da loro qualche lamentela l’ho sentita. Però grazie a Uber lavorano, si mantengono nella carissima New York, e riescono pure a mandare soldi a casa. Prima che nascesse Uber alcune città americane – in particolare San Francisco dov’è nata questa app – avevano una cronica carenza di taxi. Adesso il problema è stato risolto. Si è creato nuovo lavoro, nuova ricchezza.
Di recente il mio breve soggiorno italiano mi ha portato ad Ancona dove ho presentato i miei libri a UlisseFest. Avevo mezza domenica libera, volevo visitare la casa di Leopardi a Recanati. Tre quarti d’ora di strada. Ho avuto il riflesso automatico: chiamare Uber con la mia app sul cellulare. Ooops. Impossibile. Non ero a Taipei né al Cairo, non ero in America né in Messico né in Brasile né in Sudafrica. Ero in un paese anomalo che crede evidentemente di essere più furbo di tutti gli altri, privando il consumatore e l’utente di opzioni che ha in tutto il resto del mondo.
L’Italia soffre di una spaventosa carenza di cultura del mercato. Troppi pensano che il capitalismo è crudele e spietato e bisogna ostacolarlo ad ogni costo. Così il paese continua a scioperare, continua a proibire certe nuove attività che non piacciono alle lobby, e continua ad essere molto più povero di quanto dovrebbe.