Non intendo recensire il recente romanzo di Savino Fiorella L’orabuca (Bari, 2024), ma solo riportare passi della recensione scritta da Renato Candia su edscuola.it. “… l’autore, attraverso i vari capitoli del libro, dipana tutta una serie di ricche istantanee delle varie fasi della vita e della carriera di un insegnante nella scuola d’oggi, attraverso incontri e personaggi diversi: il precario, il supplente temporaneo, il neo-assunto già pentito, il pendolare sbattuto in 24 ore dal mare del Sud alla neve del Nord, il carismatico professore di filosofia che cita Zeman, il preside senza empatia, la bidella che chiosa giudizi cinici con la scopa in mano, la giovane collega bella ma depressa, fino alla ricerca di un anziano mentore che spieghi le ragioni del fare questo mestiere e al funerale del collega morto a due anni dal pensionamento (e di cui le poche parole rimaste alla vedova sono: ‘Non aveva che la scuola…’).Il titolo del romanzo prende spunto dall’idea di partenza dell’autore, ovvero che la scuola sia talmente oberata di vincoli e di orpelli che ne snaturano il senso, le potenzialità, la qualità e il valore della missione al punto da inquadrare inesorabilmente i suoi operatori dentro spazi privi di libertà e di umanità. Egli così tesse un elogio dell’ora-buca (tecnicamente il tempo morto dell’insegnante tra la fine di un’ora di lezione e l’attesa di quella che deve seguire e che non sempre è immediatamente successiva). È nell’ora-buca che gli insegnanti sono realmente liberi di essere se stessi, di ispirarsi, fuori dalle fatiche di classi distratte e irritanti e lontano dalla ripetitività mortificante di programmi e discipline: l’orabuca solleva tutti dall’obbligo di ritornare dentro le aule a fare la guardia agli alunni, e invita ad un altrove di pensieri e di coscienza”.
Vorrei soffermarmi su tale concetto, l’ora buca, che l’autore ha posto al centro del suo racconto chiedendomi: Ma in qualsiasi ufficio, fabbrica, negozio, azienda, non e’ forse vero che la pausa-caffe’ o qualsiasi intervallo che interrompa il lavoro ” consente ai lavoratori, operai, impiegati, commessi che siano, di sentirsi “realmente liberi di essere se stessi, …e invita ad un altrove di pensieri e di coscienza”?
In altre parole e con tutto il rispetto mi sembra davvero la scoperta dell’acqua calda pensare che i lavoratori (tutti, non solo quelli della scuola) nella pausa del loro lavoro quotidiano e routinario si sentano liberi, riacquistino le energie, riposino il cervello. Avviene agli insegnanti nell’ora buca cosi’ come agli operai, agli impiegati, ai quadri che facciano una pausa. Anzi, per dirla tutta, nella mia esperienza scolastica l’ora buca non e’ che fosse accolta di buon grado da tutti i docenti. Nelle scuole che ho frequentato le ore buche le esigevanogli avvocati per potersi recare al mattino a qualche udienza e poi tornare a scuola, le aborrivano tutti gli altri, per cui tutti pretendevano un orario compatto, senza nessuna ora buca. E quindi mi toccava spiegare loro che almeno una per sistemarvi il ricevimento genitori settimanale fosse necessaria.
Non voglio fare il guastafeste a tutti i costi, ma quando da giovane ho avuto la possibilita’ di andare a Pomigliano a vedere da vicino la catena di montaggio dello stabilimento Alfa Romeo (allora vi producevano l’Alfa Sud) ho visto alcune squadre addette alla verniciatura. Il loro lavoro consisteva nel verniciare la scocca dell’auto posta sopra di loro. Pertanto erano costretti a tenere un braccio alzato per alcune ore per spruzzare la vernice e quindi il loro turno prevedeva poche ore continue (non ricordo piu’ quante con esattezza) di lavoro e un’ora di riposo, nella quale bevevano latte perche’ la maschera che portavano al volto li preservava solo in parte dalla tossicita’ della vernice. Osservandoli pensai che io neppure 15 minuti sarei stato capace di tenere quella posizione sotto la scocca, con la testa e un braccio protesi verso l’alto. La catena di montaggio di una fabbrica solo se la si osserva da vicino si capisce in cosa consiste un lavoro faticoso. Al mio amico, dirigente di quella fabbrica, dissi allora qualcosa che posso ripetere tale e quale ancora oggi dopo che sono andato in pensione dalla scuola e sono passati tanti anni. Gli dissi che lo ringraziavo per quella esperienza che mi aveva fatto fare perche’ la catena di montaggio osservata da vicino e non in tv mi aveva convinto della fortuna che avevo avuto nella mia vita lavorativa. Allora facevo ancora il professore e mi lamentavo continuamente di tutto, delle classi, dei colleghi, dei presidi, dei bidelli, del governo, delle condizioni di lavoro, dello stipendio. Dopo essere tornato da Pomigliano compresi che ci sono tanti lavori per mantenersi, per mettere su famiglia, per crescere i figli. E che non sarei piu’ stato nella mia vita l’italiano tipico, lamentoso e piagnone.