C’è un modo di dire nei paesi vicini: «A Fagnano ci sono più chiese che cristiani». Colpa del fatto che Fagnano Castello, arrampicato a cinquecento metri in provincia di Cosenza, conta 3371 anime in tutto, ma la bellezza di quattro chiese. Una chiesa ogni 842 persone, roba da far invidia alla capitale. Sarà per i pochi abitanti che in via Garibaldi, all’anagrafe, non c’è un gran traffico, infatti nel 1999 ci lavorano solo due impiegati.
A luglio di quell’anno entra una donna mai vista prima in paese. È arrivata da lontanissimo: dice di chiamarsi Lidia Ratti Viamonte e viene dall’Argentina. È preoccupata, affranta, quasi piange; in Argentina non vogliono dare la pensione alla sua povera mamma per un problema burocratico: manca il certificato di nascita del suo bisnonno Giuseppe Antonio Porcella, emigrato a fine Ottocento. Senza quello, rischia di non sapere di cosa vivere. L’8 settembre le rilasceranno il documento: pensione salva, una storia a lieto fine.
Il problema è che in questa storia nessuno, ma proprio nessuno, è chi dice di essere. La donna non si chiama Lidia Ratti Viamonte, anzi a dirla tutta non esiste nessuno con quel nome: in realtà si chiama Maria Elena Tedaldi, interprete dallo spagnolo di origine italiana. A Buenos Aires lavora per lo studio legale Alvarez. E anche la persona il cui nome figura sui certificati che ha ritirato non è chi lei dice che sia: Giuseppe Porcella esiste (anzi esisteva), ma non è il suo bisnonno; e non è mai emigrato in Argentina.
Quei certificati sono totalmente inventati, poggiano sui dati di Ireneo Portela, cittadino argentino senza una goccia di sangue italiano che però è il bisnonno di Juan Sebastián Verón, fuoriclasse dai piedi che incantano della Lazio di Sergio Cragnotti.
Con un rapido gioco, “Ireneo Portela” e “Giuseppe Porcella” sono diventati la stessa persona: un contadino italianissimo, partito dalla Calabria per il Sudamerica nel 1870, a cui l’anagrafe ha sbagliato a trascrivere il nome. Ed è questo che serve alla donna, alla Lazio e a Cragnotti. Perché Verón è un extracomunitario e la cosa è un problema nel calcio italiano di fine anni Novanta, quando le regole prevedono un limite di cinque extracomunitari per squadra. Per questo da mesi ogni calciatore sudamericano cerca disperatamente un bisnonno europeo, una nonna portoghese, un trisavolo madrileno: per avere il doppio passaporto e circolare liberamente.
Grazie a quel bisnonno creato dal nulla, il 9 settembre 1999 Verón ne ha trovato uno, anzi gliel’hanno fabbricato. Verón è appena diventato italiano e nessuno, ma proprio nessuno si è posto una domanda: il centrocampista ha già giocato con Sampdoria e Parma, perché prima non ci si è mai accorti di questa parentela italiana?
Negli stessi giorni dagli uffici della Motorizzazione Civile di Latina scompare un numero imprecisato di patenti di guida. Una di queste finirà nelle mani dei dirigenti dell’Inter, insieme a un passaporto comunitario. Sono i documenti di Álvaro Recoba, mancino da quindici miliardi di lire all’anno, col difetto di essere nato in Uruguay. Il passaporto si rivelerà falso, la patente contraffatta.
Molti credono che Passaportopoli inizi qui, con Verón e Recoba e le indagini che si stringono attorno a loro, ma non è così. È una delle tante errate convinzioni su quei giorni: lo scandalo dei passaporti nel campionato italiano in realtà nasce un anno dopo, in un aeroporto polacco.
Inoltre i passaporti non sono tutti falsi: molti sono documenti regolari, emessi e stampati dai ministeri di mezza Europa; a essere falsi erano parentele e certificati di nascita di improbabili bisnonni portoghesi e italiani. Tutto per aggirare le regole. Uno sforzo inutile: quando le maglie delle procure inizieranno a stringersi attorno a dirigenti, calciatori e faccendieri, il sistema semplicemente cambierà quelle stesse regole. Due scudetti finiranno così nella capitale (prima alla Lazio, poi alla Roma), barando, ma senza che nessuno paghi davvero. Regole cambiate in corsa, tana libera tutti.