Poiché i giornali ormai funzionano come il telefono senza fili questa cosa dell’impatto unico della Swift sull’economia viene ripetuta un po’ da chiunque, senza che nessuno faccia una domanda ovvia come: ma perché due concerti di Taylor Swift allo stadio di Milano dovrebbero smuovere l’economia più di tre concerti di Ultimo allo stadio di Roma?
Anzi no, sennò poi mi dicono eh ma Ultimo lo vanno a vedere solo i romani, per Taylor (la chiamano per nome, perché la sentono cugina, e questo è il suo vero atout) vengono da tutta Italia: alberghi, ristoranti, treni. Arrivano da tutta Italia anche per Vasco, che di San Siro ne ha appena fatti sette senza un articolo sull’impatto sul pil che fosse uno.
Ma naturalmente una logica non c’è, se non quella che regola tutto ciò che va sui giornali in questo secolo: mia figlia vuole sapere perché ancora non ci siamo occupati di Taylor Swift, dice un qualche vicedirettore, e allora vai con le pagine, i video, le suppliche a un pubblico che i giornali non li guarderà mai ma guai a non inseguirlo. Presto, intervistiamo Veronica, 29 anni, infermiera, ha preso le ferie per preparare i braccialetti dell’amicizia che le fan di Taylor si scambiano ai concerti: ora sì che i giovani correranno in edicola.
Certo, poi c’è anche l’adulto autenticamente appassionato di Taylor Swift, ma quello è un caso umano che non ho la forza di soffermarmi a osservare, io voglio solo simpatizzare col tale che scrive sul giornale; col tale che, come Neil Tennant, di Taylor non conosce una canzone una, epperò non può più dirlo con la libertà di dieci mesi fa.
Neil Tennant – che se eravate vivi negli anni Ottanta vi basta sapere che era uno dei Pet Shop Boys, e se non lo eravate mollate gli articoli per gli adulti e andate a infilare i braccialetti dell’amicizia – ad aprile ha fatto esultare tutti noi che non abbiamo mai avuto bisogno di sentire una canzone di Taylor Swift per sapere che Taylor Swift non ha in repertorio belle canzoni (le canzoni, diversamente dalle altre forme espressive, se sono belle ti arrivano anche se tenti di evitarle).
«Quale sarebbe la sua “Billie Jean”?», ha chiesto Tennant, utilizzando l’esempio perfetto, giacché “Billie Jean” non era solo un’insuperabile canzone moschicida, ma aveva anche un testo che non somigliava a noi come eravamo, non somigliava a noi come saremmo volute diventare, non somigliava a nulla che sarebbe potuto succedere nel nostro codice postale. “Billie Jean” è una canzone di prima che l’espressione artistica venisse ridotta non a proiezione del sé dell’artista, ma del sé del pubblico. “Billie Jean” è una canzone del secolo in cui si guardavano i film, si ascoltavano le canzoni, si leggevano i libri, non per specchiarsi ma per uscire fuori dalla propria cameretta.
Toni Morrison è morta, e anche quell’idea dell’arte come porta e non come specchio non è granché in salute. In quello stesso incontro organizzato dal Guardian, Tennant diceva: «Oggi per avere una carriera di successo nel pop devi avere una serie di storie meravigliose e poi lasciarti tragicamente. Nel mondo del pop, la gente non scrive più canzoni come “Karma Chameleon”». La settimana prima, ve l’avevo raccontato, Courtney Love aveva detto «Taylor non è importante. Farà pure sentire comprese le ragazzine, e probabilmente è la Madonna di questi tempi, ma come artista non è interessante». E il fatto è che hanno tutti ragione.
Ha ragione la Love che dice che non è importante; e ha ragione il tale che scrive sul giornale costretto dall’editoria allo sbando a dire che è l’artista più importante del mondo. Hanno ragione le ragazzine che da settimane affollano Twitter con l’isteria di chi non ha mai vissuto prima, quanti braccialetti dell’amicizia devo portare al concerto, come sarebbe non mi posso portare la batteria esterna del telefono e i video come li faccio, basterà se mi metto in fila per entrare tre giorni prima; e ha ragione Tennant a dire che non ha una canzone memorabile che sia una. Hanno tutti ragione, perché le canzoni sono ancora importantissime, certo, ma non più quanto è importante specchiarsi e scambiarsi braccialetti ugualmente mediocri.
Proprio come Giorgia Meloni – e, parlandone da viva, Chiara Ferragni – Taylor ha costruito il suo successo sul «sono proprio come voi». Non è come voi, naturalmente: è una multimilionaria con fidanzati famosi che fa dei suoi mollamenti fatturato (voi al massimo ne fate lagne social). Però conta sulle amiche, proprio come voi, non sa ballare, proprio come voi, rimugina tanto, proprio come voi. Se scrivesse capolavori, non sarebbe come voi: Michael Jackson non è stato come noi neanche per dieci secondi, se provavamo anche solo a imitare la scivolata all’indietro ci coprivamo di ridicolo e di articolazioni slogate, figurarsi se avremmo mai saputo scrivere “Billie Jean”
C’è poi un dettaglio non secondario, che non so perché non venga mai considerato nelle analisi del personaggio: Taylor Swift è sexy come un comodino. Beyoncé sembra che stia mettendo un annuncio porno anche solo se alza una mano per chiedere il conto al ristorante. Madonna ha l’età alla quale mia nonna si levava la dentiera e ancora è evidentemente fissata col sesso. L’unica che ha capito come far soldi con la generazione più sessuofobica di tutti i tempi, con ragazzine che a tutto pensano tranne che a scopare, con un pubblico che va ai concerti con mamma e papà e s’imbarazzerebbe se ci fosse anche solo una ’nticchia di erotismo nell’aria, l’unica è Taylor Swift.
Lo sanno tutti, e tutti vanno a omaggiarla. I giorni della prima parte dei suoi concerti londinesi, a giugno, sono stati uno spettacolare punto di osservazione delle gerarchie del potere nel mondo dello spettacolo. Tutti andavano a renderle omaggio, dall’erede al trono a Hugh Grant, da quella di “Fleabag” a Paul McCartney, da Tom Cruise a Cate Blanchett. Era il corrispettivo londinese della gita di Chris Rock dal Papa: la gente più famosa del mondo sanciva il proprio status non stando su un palco, ma facendosi vedere nel privé di qualcuno di almeno altrettanto famoso.
A Milano, dove non c’è uno star system ma ci sono un sacco di tali che scrivono sui giornali, magari se è fortunata Taylor può farsi le foto con loro. Se è molto fortunata, le diranno che credono in lei: ha le spalle strette, ma prima o poi la sua “Billie Jean” la scrive. A quel punto, grata come sanno esserlo le ragazze ingannevolmente medie, potrebbe donare al tale che scrive sul giornale un braccialetto dell’amicizia. Sarebbe un bellissimo finale, per il giornalismo culturale di questo secolo allo sbando.