In un Paese dalle finanze fragilissime come l’Italia, e in cui l’economia del Mezzogiorno vale meno di un quarto di quella complessiva, i conti dell’autonomia differenziata non tornano. Se le Regioni più ricche, quelle che oggi generano più tasse di quanto spendano, decidessero infatti di trattenere per sé anche una piccola parte delle risorse con cui oggi contribuiscono al bilancio nazionale, l’ammanco in termini di trasferimenti per le Regioni più povere sarebbe ben più rilevante, moltiplicato per tre volte e mezzo. E se lo Stato dovesse intervenire per compensarlo, rischierebbe di azzerare o quasi il suo avanzo primario, il parametro più importante per il rispetto delle regole europee.
Risultato? Il progetto delle Regioni del Nord di trattenere maggiore ricchezza sui propri territori appare “lungo, accidentato e per nulla scontato”. Di fatto “un miraggio”. A meno di non mettere a rischio la tenuta del welfare del Mezzogiorno o quella dei conti pubblici italiani, due esiti allo stesso modo catastrofici.
Chi dà e chi prende
A dare sostanza numerica all’allarme delle opposizioni pronte ad unirsi in referendum contro la legge Calderoli, ma anche di ampie fasce della maggioranza, è una simulazione dell’Osservatorio sui Conti pubblici italiani dell’Università Cattolica. Finora dell’autonomia differenziata è stato approvato in Parlamento solo lo scheletro di principi generali, tra cui le 23 materie che le Regioni potranno decidere di avocare. Ma in attesa che i dettagli vengano definiti, a cominciare dalla decisiva definizione dei Livelli essenziali di prestazione che andranno garantiti su tutto il territorio nazionale, gli economisti dell’Osservatorio — Rossana Arcano, Alessio Capacci e Giampaolo Galli — hanno fatto un paio di conti.
Il primo, basato sui dati Bankitalia del 2019, fotografa la situazione attuale: in sette regioni di Nord e del Centro il gettito fiscale prodotto supera le spese di 95,9 miliardi di euro, un contributo positivo ai conti nazionali con la Lombardia nella parte del leone; le restanti, tra cui tutte quelle del Sud, spendono 64,2 miliardi più del gettito prodotto; la differenza tra le due cifre, 31,7 miliardi, è il bilancio primario (positivo) dell’Italia, pari all’1,8% del Pil. Il secondo conteggio invece simula cosa accadrebbe a questi flussi con l’autonomia differenziata.
Conti pubblici in bilico
Nel 2017 il Veneto, alfiere dell’autonomia, chiese di trattenere addirittura i nove decimi del gettito fiscale riscosso sul proprio territorio. Un’ipotesi estrema, che se applicata da tutte le Regioni “costerebbe” al bilancio nazionale una cifra pari a 5 punti di Pil. Gli economisti simulano allora uno scenario “meno irrealistico” che vede i governatori del Nord coalizzarsi per trattenere risorse pari al 2 per cento della ricchezza lorda regionale. Dato il peso specifico dell’economia settentrionale, l’effetto sul bilancio aggregato dello Stato sarebbe comunque importante: il saldo primario scenderebbe dall’1,8 allo 0,4% del Pil. Un peggioramento “molto rilevante in quanto a carattere permanente”.
Il Sud paga quadruplo
Per evitarlo lo Stato potrebbe decidere di far pagare il Mezzogiorno, riducendo i trasferimenti. Il problema è che l’economia del Centro-Nord vale il 78% del Pil nazionale, mentre quella del Sud solo il 22. Significa che ogni punto di Pil trattenuto dalle Regioni più ricche “peserebbe” tre volte e mezzo in più per quelle più povere: un guadagno relativamente piccolo per le prime si tradurrebbe così in una perdita molto consistente per le seconde, finendo per mettere a rischio la tenuta dei servizi. Ma l’effetto non sarebbe molto diverso neppure se, anziché tutte le Regioni settentrionali, a percorrere questa strada fossero solo Lombardia e Veneto. Da sole valgono infatti 67 dei 96 miliardi di residuo fiscale “trasferito” al bilancio nazionale.
Il miraggio del Nord
La domanda, in sostanza, è: chi pagherebbe il conto? E le perplessità rispetto alla risposta sono già emerse con forza, non solo da parte delle opposizioni. Molti governatori e sindaci del Sud, anche all’interno della maggioranza, e non pochi imprenditori hanno lanciato l’allarme sul fatto che la legge Calderoli finisca per estremizzare le disparità che dividono l’Italia, anziché ridurle responsabilizzando la politica locale. E diversi osservatori hanno messo in luce la tensione che la sua attuazione potrebbe provocare nei conti pubblici, con il farraginoso meccanismo che prevede di verificare anno per anno l’allineamento tra il fabbisogno di spesa delle Regioni e il loro gettito fiscale, equilibrando eventuali scostamenti.
L’aritmetica racconta che, a meno di ignorare le ragioni dei conti pubblici o quelle della perequazione nazionale, le risorse aggiuntive a cui le Regioni del Nord potrebbero attingere sarebbero limitate. Una promessa tradita, e sarebbe decisamente il male minore.