Dal suo primo libro, Il letto e il potere, al più recente B una vita troppo (Feltrinelli), Filippo Ceccarelli ha disegnato una piccola (neanche tanto a dire il vero) e sfiziosa storia di questo paese.
Una repubblica fondata sul sesso (nelle variopinte declinazioni) più che sul lavoro.
Filippo, che i lettori diRepubblica conoscono bene, è un uomo mite, tranquillo, metodico. Qualità che si addicono a chi ha scelto di archiviare il mondo, che è poi il nostro piccolo mondo filtrato dai giornali. Tutte le mattine officia il suo rito: legge, sceglie, ritaglia, e raccoglie. Tra le mani gli passano una decina di quotidiani.
Mi fa vedere dove lavora. Lo studio per intenderci. Pareti di libri, tre scrivanie, una occupata dal computer su cui trascrive ciò che ha selezionato. Mi pare un uomo realizzato. Una moglie, Elena Polidori, anche lei giornalista, due figli, Giacomo e Francesca, il cane Pepito, un vecchio “spazzolone” che arranca dal basso dei suoi 14 anni.
Sei un uomo felice?
«Preferisco la parola fortunato. Mi piace quello che faccio, non è poco».
Ma non ti annoi ad assecondare tutti i giorni questa arte del ritaglio.
«No, però a volte mi chiedo perché. Perché da più di trent’anni sono qui, che piova o ci sia il sole, a maneggiare i fogli dei giornali».
Ti sei dato una risposta?
«Forse la paura che il passato svanisca, che non resti più niente. So che alla fine è così. Ma non me la sento di non tentare almeno una difesa. Documentare, dal mio punto di vista, cosa mi piacerebbe che venisse conservato. Nel bene e nel male. E poi c’è un altro motivo».
Quale?
«Un motivo di ordine genetico. La mania di accumulazione documentaria l’ho ereditata da mio nonno Giuseppe».
Giuseppe Ceccarelli, in arte “Ceccarius”.
«Un uomo nato alla fine dell’Ottocento con un amore sconfinato per Roma, tanto che divenne oggetto dei suoi studi. Era un intellettuale e un giornalista. Amico di Trilussa. Lo ricordo ormai molto vecchio ancora dedito al suo archivio di ritagli. Ho preso tanto da lui. Anche una certa bonomia».
L’ho notato. I tuoi libri come i tuoi articoli non sprizzano cattiveria.
«Ho imparato che ci sono poche cose al mondo che vale la pena sapere. Parlo di cose che servono a orientarmi. Una di queste è che ciò che ci accomuna sono le imperfezioni, gli errori che commettiamo. Allora che senso ha infierire?».
Meglio l’indulgenza.
«Sono per giunta un credente».
Ma non un bacchettone.
«Oddio, direi proprio di no!».
Hai scelto il sesso per raccontare il potere in Italia.
«Cos’è questo Paese, se ci pensi bene? Sesso, cibo e spettacolo».
Ne hai fatto il filo rosso.
«Fin dal 1994, un anno cruciale. Mi sono detto: è possibile lavorare su una materia storica così vischiosa e contraddittoria prescindendo dalle crude idealità del Novecento?».
Intendi destra e sinistra?
«Provare a star fuori dallo spirito di parte e allo stesso tempo cercare di capire qual è la specialità di casa Italia».
Temo sia un menù molto ricco.
«Ma riconducibile alle due grandi arti italiane: la commedia e il melodramma. Dopo averle affinate le abbiamo regalate al mondo».
Perché proprio qui, intendo da noi?
«Bisogna entrare nei meandri dell’antropologia. Mi limito a segnalare un bellissimo libro di Barzini Jr. sugli italiani. Diceva che il nostro popolo scambia facilmente la realtà con la rappresentazione».
Amiamo il teatro.
«Direi soprattutto l’opera lirica».
Dove ogni dramma è un falso.
«Dove il vero non trova un fondamento. Abbiamo perso ogni capacità di dire la verità. Ridotto le nostre vite a un puro romanzo verbale».
In cima a questo romanzo, protagonista assoluto, si scorge il tuo B, Silvione come lo chiami familiarmente.
«Berlusconi è interamente dentro il nostro immaginario. Ha occupato ogni spazio».
Gli hai dato più di 600 pagine, ha occupato anche la tua mente.
«Ne sono stato ossessionato, me lo sognavo la notte. Mia madre era preoccupata che fossi troppo severo con lui. Sai qual è la verità?».
Dimmi.
«Berlusconi è stato un dono per noi giornalisti. Capita si e no una volta ogni due o tre generazioni che si presenti un’occasione simile: poter raccontare di qualcuno che sale e si afferma, cade, rinasce e ricade e poi ancora di nuovo in sella e poi giù e ancora su. È una storia di potere unica. Perfino da morto è come se continuasse ad esercitare le sue prerogative».
L’ultimo round, poi i tempi supplementari. Sotto il segno della superstizione.
«Era molto superstizioso. Tutto quello che Silvione ha cercato di fare in vita è provare a ingannare la morte».
Eros e Thanatos.
«Combattere Thanatos con Eros».
Tu dici?
«Puoi leggere la sfilza di “vergini” che sono passate dai suoi lettoni come un antidoto alla morte. Ma ti ricordi i compiacenti dottori che dicevano che sarebbe giunto alla sobria età di 120 anni?».
Vuoi che l’abbia dimenticato, per un attimo ho sperato…
«Ha fatto scuola. Tutta l’erotica sociale ruota attorno all’idea di vitalità».
E B. voleva essere vitale.
«Perfino da morto è entrato nella ristretta schiera di coloro che esercitano il potere sui vivi. La sua morte non è stata tragica come quella di Moro o epica come quella di Berlinguer. È stata pop. Che è un modo per non morire, rendendosi invincibili».
Non ne fai un personaggio un po’ troppo simpatico?
«Ci faceva ridere, dice mia moglie Elena. Entrava nelle case come un vecchio zio».
Più che un politico un parente.
«Direi più che uno statista un politico imparentato ai desideri del presente».
Traduci.
«Lo statista è il politico che si dedica all’etica del bene comune; Berlusconi ha sempre pensato in chiave di estetica del consumo. Non a caso veniva dal mondo della pubblicità, l’aveva studiata, amata, perfezionata. Ha imposto agli italiani l’ideologia del sogno».
Ha preteso di dargli la felicità.
«Più che la felicità, nozione ambigua e piena di trappole, gli ha promesso il divertimento. Gli ha promesso il paese dei balocchi. Un’illusione fantasmagorica ma efficace. Non gli bastava aver inventato la televisione del divertimento e del consumo a oltranza, ha perfino comprato una squadra di calcio. E questo senza ancora scendere in politica».
Lo paragoni al Faust. Non è un po’ troppo?
«Ti sembrerà eccessivo e perfino improprio, ma nelle pagine di Goethe – senza impancarmi a critico – ho trovato numerose rispondenze. A cominciare dal mito dell’eterna giovinezza, riempito da avide cortigiane, congiure di palazzo, donne da sedurre, ruffiane e ruffiani da utilizzare, la goffa libidine esercitata nel nome dei piaceri della carne, le promesse mai mantenute, le lodi servili, lo spirito della menzogna e l’assoluta mancanza del senso della misura. Tutto questo fa di B. un modello che vedrà molti imitatori nel mondo».
Un archetipo letterario.
«Diciamo che la letteratura precede la vita, ma questa dà senso a quella. Pensa alle finte nozze, talmente improbabili da sembrare vere, almeno come è vera a volte la letteratura».
Direi un romanzetto.
«Con il Cavaliere vestito in Armani blu e Marta Fascina in bianco, entrambi a giurarsi fedeltà eterna davanti a una torta di tre piani. Che altro resta?».
Gli acciacchi, la decadenza, il corpo che lo abbandona, starei per dire lo tradisce suo malgrado.
«Le terapie intensive e le pietose menzogne sul suo stato di salute finale, ormai gonfio e con lo sguardo vitreo è questo che resta, un’immagine tra il penoso e il commovente».
Torna la tua indulgenza.
«Te l’ho detto sono un credente».
Con i tuoi libri hai sempre in qualche modo raccontato il potere dal punto di vista della vanità più che dalla forza.
«È molto consolante quello che dici. Sul terreno dei vizi, non so quanto capitali, la nostra generazione ha subito soprattutto la vanità che come sai al massimo può farci ridere. Mentre la generazioni dei nostri padri ha avuto dal potere le guerre, la fame, i genocidi. Noi abbiamo dovuto combattere con dei farfalloni, degli egocentrici volgari. Appartengo a una generazione risparmiata dagli eventi estremi. Ma non so quanto questo si è trasmesso anche alle nuove generazioni. Eviterei però di entrare nella spirale della divinazione a sfondo pessimistico».
Più che un cacciatore di notizie sei un cacciatore di comportamenti.
«È un bel privilegio. Sai, a volte so di essere un orecchiante, uno che è come la carta assorbente, che prende tanto dal mondo ma non va mai veramente a fondo. Una volta qualcuno in redazione mi parlò di Leo Strauss e della scrittura che dissimula come difesa dal potere. Ecco, ho avuto la fortuna di non dover mai dissimulare, di poter scrivere tutto quello che ho voluto. Mi sono censurato? Magari mi sarà accaduto. Ma senza quelle piccole vigliaccherie volte al quieto vivere. E poi, di giudici supremi ne basta uno».