Si racconta che alla fine degli anni Quaranta il presidente Luigi Einaudi chiese a Cesare Merzagora se vi fosse un incarico nell’amministrazione della nuova Repubblica, per il quale gli avrebbe fatto piacere essere considerato. «Uno solo — avrebbe risposto Merzagora — ambirei all’incarico di Ragioniere generale dello Stato». «Vedrò che cosa posso fare», pare disse il presidente, salvo alcuni giorni dopo comunicargli che altri ruoli erano possibili, ma la Ragioneria generale purtroppo no. Richiesta curiosa per una persona, come Merzagora, più vicina alle imprese del Nord — fu per oltre un decennio presidente delle Assicurazioni Generali — che allo Stato. Ma anche un segno di quale fosse la considerazione di cui godeva la funzione di Ragioniere generale dello Stato. È per questo che ogni cambio alla Ragioneria provoca scosse nell’amministrazione e nella politica. La Ragioneria, nonostante sia solo uno dei dipartimenti del ministero dell’Economia, è in realtà il cuore dell’amministrazione dello Stato. È un mondo chiuso, immissioni dall’esterno sono possibili, ma rarissime: la breve parentesi del professor Vittorio Grilli, nominato dal ministro Tremonti e, recentemente, il più lungo periodo di Daniele Franco che però proveniva da un’amministrazione pubblica molto peculiare, la Banca d’Italia. Il potere del Ragioniere generale deriva dal fatto che è impossibile far approvare una legge in Parlamento, anche la Legge annuale di bilancio, senza il parere favorevole della Ragioneria, la quale deve certificare che ogni nuova norma abbia una sufficiente copertura finanziaria, cioè non crei nuovo debito.
Ma allora come è possibile che abbiamo uno dei debito pubblici più alti al mondo? Il motivo è che la Ragioneria interpreta il suo compito con flessibilità, cioè o sottostimando l’onere di una spesa, o sovrastimando le coperture, o trovandole in fondi di bilancio improbabili. L’entrata nell’euro e l’avvio del Patto di stabilità hanno reso le coperture una questione più seria.
Che cosa è accaduto negli ultimi anni? Due cose che è bene tener distinte. Innanzitutto quando l’economia si è fermata a causa del Covid, il Patto di stabilità è stato sospeso e la Ragioneria, che doveva continuare a garantire le coperture, le trovò in poste di bilancio sempre meno probabili perché la priorità era evitare il ripetersi di quanto accaduto negli anni Trenta: un’esplosione della disoccupazione e dei fallimenti delle imprese. È ciò che accadde in tutto il mondo: si salvarono imprese e posti di lavoro creando molto debito. Con la ripresa iniziata dopo il Covid quel debito si sta lentamente riducendo.
Ma nello stesso periodo accaddero, questa volta solo in Italia, due eventi macroscopici: il Superbonus e il cosiddetto «patent box», cioè la possibilità per un’azienda di rivalutare i propri marchi e poi svalutarli un po’ all’anno, in tal modo evitando per molti anni di pagare alcuna imposta. Con queste due misure, entrambe varate durante il governo rosso-verde (presidente del Consiglio Giuseppe Conte, ministro dell’Economia Roberto Gualtieri) non hanno nulla a che vedere con il Covid: sono entrambe figlie di un cattivo disegno rispetto all’obiettivo di aiutare soprattutto i cittadini meno abbienti. Anziché dirlo esplicitamente, ad esempio escludendo le ville dalle agevolazioni del Superbonus, si misero in piedi complicati meccanismi fiscali che hanno aiutato più i ricchi che i poveri.
Nel caso del Superbonus la misura che ha creato il disastro nei conti pubblici è stata la libera cessione del credito con lo sconto in fattura, che ha assicurato la piena e immediata utilizzabilità del credito. Tutti i contribuenti sono improvvisamente diventati «capienti» cioè non dovevano più mostrare che negli anni futuri avrebbero dovuto pagare una quantità di imposte sufficiente a coprire la deduzione fiscale. La Relazione tecnica della Ragioneria sottovalutò questo aspetto, cioè dimenticò, ad esempio, che l’impatto di 6,6 miliardi sull’indebitamento netto del 2021, anziché essere distribuito sull’arco di 6 anni (dal 2021 al 2026) si sarebbe concentrato nel biennio 21-22.
Evidentemente non fu un errore, ma la risposta ad una pressione politica che vedeva schierati tutti i partiti, dalla Lega ai Verdi, dal Pd a Italia Viva, da Fratelli d’Italia ai Cinque Stelle e a Forza Italia. La Ragioneria è un dipartimento del ministero dell’Economia: assumere posizioni «eversive» è sempre possibile, ma per un funzionario dello Stato non è facile. Più chiara fu la posizione dell’Ufficio parlamentare di bilancio che non a caso è un’istituzione indipendente e fin dall’inizio raccontò (per lo più inascoltato) che cosa stava accadendo.
Più grave quanto è accaduto con il patent box — a cominciare dal fatto che il provvedimento fu introdotto con un emendamento dell’ultima ora la notte prima della votazione finale sulla Legge di bilancio 2021, cioè il giorno di Natale del 2020. Alla Ragioneria fu chiesto di garantire in poche ore che il provvedimento era «coperto» e la Ragioneria lo fece con la solita tecnica: sottostimarne i costi. Stimò qualche centinaio di milioni per una norma che sarebbe costata 70 miliardi se nel 2021 non fosse stata neutralizzata allungando a 50 anni il periodo sul quale spalmare il beneficio fiscale. Un esempio della tecnica di alcune lobby potenti, in questo caso importanti studi legali al servizio dei loro clienti, che propongono emendamenti i cui effetti solo loro capiscono e che debbono essere valutati in poche ore.
È giusto cambiare il Ragioniere generale? Certamente sì perché Superbonus e patent box sono casi in cui un funzionario dello Stato, nonostante le cautele di cui sopra, dovrebbe avere il coraggio di dire no alla politica anche a costo di essere eversivo. Ma la lezione, per la scelta di un nuovo Ragioniere, è che la prima caratteristica della persona prescelta deve essere la sua assoluta indipendenza.