Riporto la parte finale di un saggio (pubblicato per intero sul Foglio) in cui l’economista Michele Salvati spiega come una riforma costituzionale è necessaria, ma solo se condivisa può spianare la strada a rapporti meno antagonistici tra le forze politiche e alle riforme che servono al paese. E i centristi? A loro serve una nuova strategia. Manifesto per un bipolarismo temperato
(…) Gran parte delle mie convinzioni le ho anticipate commentando i risultati ottenuti dalle due liste – Stati Uniti d’Europa e Calenda – promosse da tre partiti, Italia viva e Radicali, la prima, e Azione, la seconda. Sia gli argomenti comuni e profondi sia quelli locali suggeriscono che è stato un errore non allearsi e presentarsi in due liste diverse, anche se i leader di questi partiti e gran parte dei loro aderenti e simpatizzanti non volevano confondersi coll’attuale Pd e con la linea politica da esso perseguita. Ora vorrei riprendere e concludere l’argomentazione a partire dall’affermazione apodittica che in Italia non c’è spazio per partiti centristi, che affermino e pratichino l’irrilevanza della distinzione tra destra e sinistra. Al di là degli argomenti prima definiti come “comuni e profondi”, sono quelli “locali”, derivanti dalla turbolenta storia italiana, a essere in discussione. E il primo fra di essi discende dalla constatazione che anche un leader di partito che si presenti come “centrista” e cerchi di comportarsi come tale, ma provenga da una storia personale che lo ha visto legato a uno dei due campi ideologico-politici in gioco, non in è grado di fare molti proseliti nel campo avverso. Renzi e Calenda hanno alle loro spalle una storia di centrosinistra: di conseguenza, in una situazione di forte polarizzazione, nessuno dei due è credibile come “vero” centrista. Tanto vale, allora, che essi si presentino all’interno di forze politiche, caratterizzate sì da un programma riformista e realistico, ma vicino agli ideali della sinistra. Così come, a destra, stanno facendo Tajani (Forza Italia), Lupi (Noi Moderati) e altri alleandosi a partiti estremisti con i quali essi hanno poco da spartire.
Insomma, anche i “centristi”, se non vogliono confluire nel partito egemone del loro campo ideologico (e possono avere motivi discutibili ma seri per non volerlo) dovrebbero dividersi in… centristi di sinistra e centristi di destra – due evidenti ossimori – al fine di meglio contribuire al successo della coalizione cui appartengono. Tutto questo dipende dalla legge elettorale in vigore e non sappiamo quale sarà quella che verrà adottata nelle prossime elezioni politiche. Quanto detto, ovviamente, vale nel caso in cui questa legge abbia una struttura maggioritaria che favorisca la formazione di un bipolarismo di coalizioni, e oggi tutto fa pensare che la legge elettorale che sarà in vigore nel 2027 sarà una legge di questo tipo. In tal caso un buon successo dei centristi di destra e di quelli di sinistra potrebbe favorire quella convergenza al centro del dibattito politico che in altre esperienze si manifestava anche in sistemi bipartitici, evitando il bi-populismo che ha caratterizzato la lunga fase apertasi con la crisi politica dei primi anni Novanta. Insomma, un “governo al centro”, come Tonini, riprendendo Duverger, l’ha recentemente definito.
Se sia Renzi che Calenda condividono questa valutazione politica e con essa gran parte dell’analisi sulle cause del declino del nostro paese, se pescano entrambi nello stesso bacino di elettori potenziali, che senso ha la divisione in due partiti? Non si tratta soltanto di evitare infortuni come quello delle recenti elezioni europee – un milione e seicentomila voti buttati al macero – ma di costruire un movimento politico che tenga insieme la gran parte di elettori orientati a sinistra e che però non votano volentieri per un partito in cui, dopo un congresso sul quale è meglio stendere un velo pietoso, ha vinto la sinistra dell’attuale segretaria. Certo, se la valutazione politica di più sopra è corretta, i voti che questo movimento politico otterrebbe non sarebbero strappati alla destra, ma al Pd e ad altri partiti minori della stessa coalizione di sinistra, e all’astensione, se va bene. Ma proprio questo è il punto: se ci fosse la sicurezza che questi voti, e qualcuno di più, ritornerebbero alla stessa coalizione alla quale sono stati sottratti, l’argomento del voto utile prederebbe gran parte della sua forza: perché votare turandosi il naso al solo fine di ostacolare il successo della coalizione avversa quando si può ottenere lo stesso risultato votando un partito che ci piace di più? E’ per questo che l’impegno dei “centristi di sinistra” a escludere di portare voti a destra dev’essere sentito da loro e percepito nella comunità politica come serio e stabile.
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Ma non è solo per questo. La posizione politica che il nostro ossimoro (“centristi di sinistra”) rappresenta è la traduzione nel contesto politico attuale del nostro paese di una concezione liberaldemocratica di sinistra molto diffusa nei paesi capitalistici più avanzati e trova le sue migliori giustificazioni teoriche nelle discussioni sulla teoria della giustizia e in John Rawls in particolare, ma anche in Amartya Sen e tanti altri. Partecipare a pieno titolo a un importante dibattito filosofico-ideologico internazionale è assai più utile che cercare precedenti italiani che speriamo siano stati superati, come quelli che videro contrapposte le forze di origine democristiana e di ispirazione cattolica cui faceva riferimento Margherita ai tempi del primo Ulivo, in contrasto con quelle di origine comunista. Non vogliamo chiudere una volta per tutte questa prima fase della costruzione del Partito democratico? Non potrebbero, Renzi, Calenda e tanti altri, dentro e fuori il Pd, contribuire alla costruzione di un vero “campo largo” in cui una posizione liberale di sinistra fosse fortemente rappresentata?
Per ragioni di storia politica personale continuo a credere che il first best sarebbe la somma di queste posizioni della sinistra, insieme ad altre in cui l’ingrediente liberale è meno presente (per usare un eufemismo) all’interno di un unico partito, come avviene nel Labour Party. Ma un accettabile second best – e ne ho appena spiegato le ragioni – potrebbe essere costituito da una stabile configurazione federale, da una coalizione che si presenta unita agli appuntamenti elettorali. Se questo avvenisse in entrambe le coalizioni, sia nel centrodestra che nel centrosinistra, il bi-populismo estremo che stiamo vivendo potrebbe forse trasformarsi in un bipolarismo più vicino a quello che ha assicurato, nei paesi capitalistici avanzati nel contesto di regimi liberali, lo sviluppo, il benessere e le libertà individuali dal dopoguerra sino all’inizio di questo secolo. Nell’attuale situazione internazionale, con le “grandi trasformazioni” tecnologiche e geopolitiche in corso, con venti di guerra che soffiano intensamente, questo è un sogno a occhi aperti: ciò che avviene in un paese che ora conta meno di quanto potrebbe a livello europeo, e in una Europa che conta poco a livello internazionale, è frutto di eventi in larga misura incontrollabili. Resta il fatto che dotarsi di un governo efficace, che riacquisti prestigio in Europa, e dotarsi di una politica europea che consenta all’Unione di contare di più nel mondo, mi sembra l’unica strategia ragionevole che un governo italiano potrebbe perseguire.
Le forze riformiste e liberaldemocratiche di sinistra sono divise in Italia tra quelle presenti all’interno del Pd e quelle organizzate in altri partiti, e questa è una divisione inevitabile se una parte di esse non si sente riconosciuta dall’attuale direzione del Partito democratico. Come ho già detto, ciò che trovo incomprensibile – o meglio, comprensibile, ma un vero spreco di risorse scarse – è la divisione ulteriore tra i liberaldemocratici di sinistra esterni al Pd. Renzi e Calenda hanno entrambi notevoli doti come uomini politici e di governo, ma il loro conflitto personale credo non sia compreso neppure da buona parte di coloro che pur aderiscono ai loro partiti personali. E ancor meno da coloro che aderirebbero a un partito con una visione ideologica e un programma assai vicini a quelli di Italia viva e Azione, se solo venissero chiarite le residue ambiguità sul loro “centrismo” e, soprattutto, se smettessero di polemizzare fra loro. Perseguendo in questa condotta, credo che Renzi o Calenda si siano danneggiati a vicenda e non debbano più rivestire il ruolo di leader di un partito personale. Un partito che organizzi quei liberaldemocratici i quali, sino a quando dura una politica di ostracismo del Pd nei confronti della loro versione di sinistra, ritengono opportuna una organizzazione separata per meglio affermare le proprie idee, dovrebbe avere un leader diverso da loro.
Mi sembra che questa convinzione cominci a farsi strada anche all’interno di Italia viva (… Azione non è ancora pervenuta, che sappia). Quel che vorrei fosse chiaro è che risorse come Renzi a Calenda non dovrebbero andare perdute, anche se essi non ricopriranno ruoli di leader di partito. C’è bisogno di loro e delle loro capacità, perché il compito che deve affrontare un orientamento politico riformista è di gande difficoltà. Sia una sinistra che una destra riformiste e realistiche dovrebbero convincere una parte maggioritaria dei loro elettori che uscire da una traiettoria di declino comporta uno sforzo collettivo grande e protratto a lungo. Che risultati tangibili non saranno evidenti nel breve periodo, nel quale dovranno essere prese decisioni strategiche e si dovranno ridurre quanto è possibile le aree di maggiore sofferenza sociale. E tutto ciò dovrebbe avvenire mentre le due coalizioni avverse si confrontano su programmi il cui merito per un comune cittadino è assai difficile comprendere. Evitare che in questa situazione, pur di prevalere, l’una o l’altra o entrambe facciano ricorso a promesse demagogiche o comunque irrealizzabili, che si inasprisca la polarizzazione tra loro e una cooperazione per il bene del paese risulti compromessa, può sembrare una Mission Impossible alla luce dell’esperienza di questi ultimi anni. Sicuramente è difficilissima. Ed è proprio per questo che la presenza, il ruolo e la forza dei nostri due ossimori, i centristi di destra e i centristi di sinistra, possono giocare un ruolo importante. Certo, insufficiente a eliminare il rischio della polarizzazione e della demagogia. Ma forse sufficiente a ridurlo a un livello affrontabile anche dal ceto politico che abbiamo, se ispirato da un obiettivo e di salvezza nazionale. E soprattutto pressato dall’evidenza sempre più minacciosa che trascinare a lungo l’attuale situazione non fa che peggiorarla e renderla irreversibile.