Ezechiele 25:17: “E la mia giustizia calerà sopra di loro con grandissima vendetta e furiosissimo sdegno…”. Senz’altro ricorderete il passo biblico mezzo apocrifo che Samuel L. Jackson, in “Pulp fiction” di Quentin Tarantino, declama solennemente un istante prima di sparare a qualche malcapitato. Ebbene, reciterei volentieri lo pseudo-Ezechiele per impallinare metaforicamente i responsabili giudiziari, giornalistici e instagrammatici dello sputtanamento del padre di Filippo Turetta, specie per aver costretto il poveruomo a una umiliante seppur comprensibile (ha già abbastanza guai) contrizione pubblica. Mi sembrerebbe tutto sommato un buon contrappasso, considerato che tutti costoro amministrano per le greggi dei fedeli un rito feroce, di una religione tanto più implacabile quanto meno sa di esser tale.
Matteo 12:36 (questa è vera): “Io vi dico che di ogni parola oziosa che avranno detta, gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio”. Ecco, i sacerdoti di questo rito permanente vivono in una contraffazione maligna del tempo messianico, un dies irae da social network in cui tutto ciò che è nascosto dev’essere rivelato e in cui nulla resterà invendicato – conversazioni private, diari, sfoghi, battute a mezza bocca, fuorionda, messaggini, fischiettamenti sotto la doccia, colloqui con gli avvocati e presto, chissà, intercettazioni in confessionale. E su ogni parola oziosa esercitano il loro truce, stolido, pedante, insulso letteralismo. Perché la lettera uccide, e loro non vogliono niente di meno che questo.