Déjà-vu. Urla e strepiti come al solito ma è possibile che alla fine la proposta del premierato finisca nel dimenticatoio. Confermando ciò che pensarono molti quando conobbero i risultati del referendum costituzionale del 2016 (sessanta per cento dei votanti a favore dello status quo), ossia che la nostra forma di governo è immodificabile. Con una sola eccezione: la riforma del titolo Quinto voluta dal Pd e confermata da un referendum nel 2001. È possibile che l’autonomia differenziata diventi un tratto permanente del nostro edificio istituzionale. Non sarebbe mai nata (con una legge ordinaria) senza la suddetta riforma del titolo Quinto. Per questa ragione, la Lega, ideatrice e principale sostenitrice dell’autonomia differenziata, non dovrebbe mai smettere di ringraziare il Partito democratico.
Chiediamoci perché la forma di governo sembri immodificabile. Quali forze sono all’opera per renderla tale? Persino chi si inchina di fronte alla Costituzione non può non riconoscere che sessantotto governi in settantasei anni (dal ’48 ad oggi) sono un po’ troppi (o no?). Spesso, chi nulla vuole cambiare della forma di governo, ribatte: «Ma che c’entra la Costituzione? È la politica la causa dell’instabilità governativa». Si tratta di una sciocchezza, ovviamente. Chi sostiene ciò non si avvede che sta di fatto sostenendo l’irrilevanza (fatta salva la tutela delle libertà individuali) della Costituzione.
Quali forze sono all’opera dunque? Certamente contano le tradizioni culturali e in particolare il richiamo all’esperienza del fascismo e alla transizione dal fascismo alla Repubblica. Da Craxi a Berlusconi, da Renzi a Meloni, tutti coloro che hanno tentato in un modo o nell’altro di modificare la forma di governo sono finiti sotto il fuoco di quello che in un precedente articolo ho definito il «club Bella ciao». A tutti loro, uno dopo l’altro, è stato detto: vuoi cambiare la forma di governo? Significa che vuoi riportare in vita il fascismo. Ad esempio, Renzi voleva incidere sulla forma di governo eliminando il bicameralismo simmetrico (due Camere con uguali poteri) e neutralizzando gli effetti più deleteri della riforma del titolo Quinto. Senza alcuna vergogna ci fu chi paragonò la riforma Renzi alla marcia su Roma.
Ma il «club Bella ciao» conterebbe ben poco se non fosse sostenuto da corposissimi interessi per i quali è vitale conservare lo status quo costituzionale, mantenere una forma di governo che assicuri a questi stessi interessi ciò di cui essi hanno bisogno: l’instabilità governativa per l’appunto.
I portatori di questi interessi sono, in parte, politici in senso stretto (o, più precisamente, politico-partitici) e, in parte, istituzionali e sociali. Sul piano politico in senso stretto, chi sa di essere minoranza nel Paese, chi sa di avere scarse probabilità di vincere le elezioni in uno scontro elettorale aperto contro le forze concorrenti, non può che preferire un assetto di governo in cui siano sempre elevate le probabilità che l’esecutivo in carica cada, che la maggioranza che lo sostiene si dissolva, rendendo così possibile all’opposizione di rientrare nel gioco governativo attraverso manovre parlamentari.
Ma, a parere di chi scrive, più degli interessi politico-partitici contano certe forze istituzionali e sociali, le quali dispongono di un potere di veto o di interdizione sulle politiche governative, un potere di veto che la forma di governo vigente assicura e ha sempre assicurato.
Chi occupa posizioni apicali nella pubblica amministrazione o nelle magistrature di ogni ordine e tipo, vedrebbe drasticamente ridotto il proprio margine di manovra e il proprio potere di interdizione nei confronti dei governi se si affermassero condizioni istituzionali volte a favorire la stabilità e la durata degli esecutivi. In qualsiasi agenzia pubblica o para-pubblica, coloro che occupano posizioni direttive e che non ricadano nell’ambito dello spoil system all’italiana, molto plausibilmente, preferiscono governi deboli. Più debole è il governo, più forza e libertà di manovra essi possiedono. Analogamente, quell’attività eufemisticamente definita «di supplenza» che da tanti anni si è intestata la magistratura, non troverebbe più spazio in presenza di governi forti e stabili.
Ciò vale anche per la miriade di interessi sociali ed economici grandi e piccoli che si sentono tutelati dal fatto di potere sfruttare a proprio vantaggio le divisioni nella classe politica di governo e la precarietà degli esecutivi. La nostra forma di governo garantisce e tutela una grande quantità di poteri di veto che scattano, per lo più con successo, non appena gli interessi dei titolari di quei poteri di veto si sentono minacciati.
Nulla è eterno. È possibile che un giorno, fra alcuni o molti decenni, una nuova Assemblea costituente sia chiamata a fare nascere una Seconda Repubblica sulle ceneri della Prima. È sperabile, in tal caso, che i costituenti, ammaestrati dall’esperienza, non ripetano, su governo e Parlamento, gli errori commessi un tempo.
La storia è, ovviamente, imprevedibile. Tuttavia, sarebbe forse prudente, per chi tiene al proprio denaro, non scommettere sul futuro del premierato.