Il mondo trema per quel che può ancora accadere in Medio Oriente dopo gli ultimi colpi inferti da Israele ai suoi nemici. Lo scenario fin troppo prevedibile è quello di un susseguirsi di ritorsioni e contro-rappresaglie, la «doverosa vendetta» promessa dall’ayatollah Khamenei, cioè il peggioramento senza fine di una tragedia che ha già inflitto uno spaventoso bilancio di sofferenze.
Esiste una speranza di segno opposto, per quanto labile bisogna aggrapparvisi. In gergo, si parla di escalation for de-escalation. In questa ipotesi, Israele sarebbe in cerca di una via d’uscita dalla guerra di Gaza. Due eliminazioni di avversari di alto livello potrebbero diventare l’opportunità per proclamare vittoria e iniziare un processo di segno inverso, una graduale smobilitazione dalla Striscia. A cui dovrebbe seguire però un piano rapido e credibile per instaurare un nuovo governo a Gaza e poi iniziare la ricostruzione. Nessuno scommette che questo scenario sia il più probabile. Però esiste.
La cronaca è feroce. Due colpi micidiali messi a segno da Israele, due leader di milizie filo-iraniane uccisi nello spazio di due giorni. Uno (Fuad Shukr) è un capo di Hezbollah eliminato a Beirut in Libano, l’altro (Ismail Haniyeh) è il leader politico di Hamas ucciso da un missile a Teheran. La seconda è già stata denunciata dalla guida suprema della teocrazia iraniana che promette vendetta.
L’impressione immediata è quella di una spirale che conduce verso la deflagrazione di una «guerra totale» in Medio Oriente: con l’apertura del temuto terzo fronte contro Hezbollah in Libano dopo i due fronti di Gaza e del Mar Rosso; possibilmente perfino un quarto fronte con un conflitto diretto fra Israele e l’Iran, aggravato da potenziali implicazioni nucleari. Senza escludere una nuova Intifada in Cisgiordania.
Lo scenario più pessimista è il più facile da dedurre dagli ultimi due colpi contro nemici di Israele. A Beirut l’attacco israeliano avrebbe centrato il leader di Hezbollah considerato responsabile per l’orrenda strage di bambini drusi in un campetto di calcio nel Golan. Il castigo era considerato indispensabile per più motivi, inclusa l’importanza di dimostrare che Israele protegge anche le proprie minoranze etniche (i drusi sono arabo-siriani). Hezbollah aveva negato la paternità di quella strage, si capisce perché: con ogni probabilità era avvenuta «per sbaglio», il vero bersaglio doveva essere una base israeliana; l’imbarazzo di Hezbollah è accentuato dallo sdegno pressoché unanime nel mondo arabo per quei bambini drusi uccisi. Resta il fatto che l’eliminazione di un leader Hezbollah nella capitale del Libano, in una zona presidiata da questa milizia filo-iraniana, è un colpo alla credibilità dei suoi leader e può innescare un altro ciclo di contro-rappresaglie.
A questo si aggiunge l’attacco immediatamente successivo, il missile che ha ucciso un capo politico di Hamas nientemeno che nella capitale dell’Iran, dove si trovava per assistere all’insediamento del nuovo presidente eletto. Anche in questo caso siamo di fronte ad un’assenza di rivendicazione, che però rientra nella prassi consueta delle forze armate israeliane e dei loro servizi segreti. Qui il colpo è ancora più tremendo, un’umiliazione per l’intera leadership iraniana che ha assistito impotente all’uccisione di un alleato mentre si trovava nella propria capitale per un evento ufficiale. Ismail Haniyeh, il leader politico di Hamas che viveva in Qatar, era anche il capo negoziatore nelle trattative per il cessate-il-fuoco a Gaza e il rilascio di ostaggi. Non che ci fossero molte speranze su un esito rapido e positivo di quelle trattative, ma di certo ora sono più difficili che mai.
È forte la tentazione di vedere in moto un ingranaggio irreversibile. Le prossime rappresaglie, da Hezbollah, da Hamas, dall’Iran, potranno innescare ulteriori risposte da parte di Israele. D’altronde c’è una visione «realista» in Israele — non limitata a Benjamin Netanyahu — che considera impossibile raggiungere un livello di sicurezza accettabile senza una resa dei conti definitiva con chi vuole eliminare lo Stato ebraico. Quindi Hamas ma anche Hezbollah e lo stesso Iran, vero regista di tutti gli attacchi nella regione. Fin dalla sua fondazione con la rivoluzione khomeinista del 1979 la teocrazia sciita degli ayatollah si è data tre missioni sacre: distruggere Israele; cacciare l’America dal Medio Oriente; sottrarre all’Arabia saudita i luoghi sacri della Mecca e Medina. Non ci sarà pace in Medio Oriente finché l’Iran non rinuncia a tre obiettivi così distruttivi. Una logica implacabile sembra spingere verso la generalizzazione del conflitto. Tanto più che le ultime vicende avvengono nel quadro di una sorta di vacanza della politica estera americana. «Il cessate-il-fuoco ora è imperativo», ha detto il segretario di Stato Antony Blinken. Ma Joe Biden è un presidente depotenziato. L’azione degli Stati Uniti è ancora meno incisiva del solito, tutti gli attori mondiali pensano al «dopo», s’interrogano su quale sarà la strategia internazionale di una presidenza Harris o Trump.
Lo scenario benigno viene evocato da fonti che cita un esperto dell’area, James Rothwell del Daily Telegraph. È la teoria detta escalate to de-escalate. Seguendo questa tesi Israele avrebbe colpito a Beirut e a Teheran non per segnalare la sua determinazione ad allargare la guerra, ma per prepararsi a una ritirata. L’uccisione del leader di Hezbollah e di quello di Hamas sarebbero funzionali a dichiarare missione compiuta, a proclamare vittoria, quindi a preparare un disimpegno delle forze armate israeliane, già molto provate dopo nove mesi di intervento a Gaza. L’escalation sarebbe il preludio alla de-escalation. È una teoria interessante, per avverarsi richiede almeno una condizione: che tutti gli altri stiano al gioco. Che cioè le contro-rappresaglie da Hezbollah e da Hamas e la vendetta promessa da Khamenei non oltrepassino qualche «linea rossa» segnata dagli israeliani. Nel qual caso torneremmo invece al primo scenario, quello della guerra generalizzata.
Molto dipende dai calcoli iraniani sui rapporti di forze nella regione. Nonché dal livello di incoraggiamento che il regime degli ayatollah sciiti riceve dai suoi veri protettori dietro l’Asse della Resistenza, Russia e Cina. Xi Jinping ha fatto un gesto interessante, ancorché simbolico, quando ha mediato un’intesa fra varie fazioni palestinesi, teoricamente in vista di un governo unitario della Striscia nel dopoguerra. L’Arabia saudita sarebbe pronta a finanziare la ricostruzione. Resta il bisogno di una regìa che coordini tutto, e che coinvolga perfino Pechino. I sognatori direbbero: si faccia avanti l’Europa. I realisti sanno che quella regìa o sta a Washington o non c’è.