I recenti risultati delle prove Invalsi 2024 che hanno interessato gli studenti italiani non appaiono particolarmente esaltanti e spicca, in negativo, un grave deficit in matematica. Al di là delle tante considerazioni generali sulla preparazione complessiva dei nostri studenti (anche con la comprensione di un testo scritto in italiano non siamo messi bene), le carenze in matematica inducono ad una riflessione culturale sul nostro popolo di santi, poeti e navigatori. Immemori di Pitagora, di Leonardo e Galileo (che, è bene ricordarlo per chi potrebbe fare confusione, non sono coevi), la matematica nella nostra «cultura» umanistica è sempre stata considerata un po’ di serie B rispetto ad altre discipline. Non tanto come importanza in astratto (anzi, sempre grande ammirazione per i matematici), ma come conoscenza indispensabile nel bagaglio culturale individuale. Essere bravi in matematica è sempre stato considerato come una sorta di peculiare originalità un po’ da nerd (anche quando il termine non lo conoscevamo) che sfociava, nell’immaginario collettivo, anche in una sorta di classificazione di sapore lombrosiano: dagli occhiali indispensabili alle fattezze fisiche non particolarmente esaltanti.
I somari
Ma c’è di più: anche autorevoli esponenti della nostra cultura (questa volta senza virgolette) non si sono mai sentiti in imbarazzo nel proclamarsi dei veri somari in matematica, cosa che difficilmente avrebbero detto riguardo ad altri ambiti del sapere, anche più di nicchia rispetto alla matematica. Anzi, il proclamarsi somari in matematica risulta spesso una sorta di simpatico vezzo; tanto le cose importanti sono altre. Per capire quanto questo atteggiamento sia di un provincialismo assoluto basta guardarsi un po’ in giro nel mondo. Proclamarsi somari in matematica in Asia (dove non sono proprio quattro gatti) o in India, equivale a darsi, da solo, del deficiente allo stato puro. Meno radicali, forse, nella cultura anglosassone, ma altrettanto fermi nel considerare la matematica il fondamento primo del bagaglio di conoscenze che ciascuno deve acquisire. Ed anche se ci fermiamo subito oltre confine l’importanza che la scuola dà alla matematica è certamente maggiore rispetto a ciò che avviene da noi dove il liceo scientifico è certamente più gettonato, in termini di iscrizioni, rispetto al liceo classico, ma nell’immaginario è sempre un passo dietro.
Non è considerata un fine culturale
E, seppure i diretti interessati non lo ammettono, anche in un liceo scientifico il prof di lettere e quello di matematica non sono percepiti – salvo le ovvie eccezioni – allo stesso modo. E non per preparazione o bravura, ma per un alone di autorevolezza che prescinde dalla persona ed è generato dalla materia. Ma perché questa sorta di collettiva «distanza» dalla matematica? C’entra un po’ il fatalismo italico per cui non è sempre detto che uno più uno faccia per forza due e allora figuriamoci in che considerazione possiamo avere equazioni e derivate?
Carlo Buzzi, sociologo dell’Università di Trento, fa questa riflessione: «Da noi la matematica è da sempre considerata essenzialmente un mezzo per acquisire specifiche competenze, quasi sempre esclusivamente professionalizzanti, e non un fine culturale come, ad esempio, l’arte, la musica, la letteratura. Questo spiega anche una sorta di resistenza psicologica di molte ragazze ad iscriversi a facoltà STEM, viste essenzialmente in un’ottica strumentale. Da qui un minor riconoscimento sociale delle competenze matematiche rispetto alle altre citate».
In sostanza: se non devo fare l’ingegnere a che mi serve la matematica? Ma nessun ingegnere menerebbe vanto di non sapere cos’è la Divina Commedia. Retaggi storici e culturali. Ricordiamoci sempre che Galileo dovette fare abiura delle sue scoperte da matematico e Leonardo non sarebbe Leonardo se al di là dei suoi ponderosi e fondamentali studi matematici non avesse, nel tempo libero, dipinto la Gioconda.