Era il 1972 e Luigi Pintor sul Manifesto scriveva dei giudici chiamandoli mostri. “Spesso ossuti e avvizziti, più spesso obesi e flaccidi, col viso marcato dalle nefandezze del loro mestiere, ogni anno ci appaiono vestiti da pagliacci, come non osano neppure gli alti prelati. Chi sono? Sono gli alti magistrati che inaugurano l’anno giudiziario, per dirci che bisogna mettere più gente in galera e tenercela, e quale gente e perché”. “Questi personaggi sono l’immagine stessa del privilegio e dell’arbitrio. Dispongono del più illecito dei poteri, quello sulla libertà altrui. Ma sono intoccabili, ancora in un tempo in cui non c’è gerarchia che in qualche modo non debba render conto di sé. Dispongono di armi micidiali, leggi inique e meccanismi incontrollabili. E le maneggiano come e contro chi vogliono”.
Quelle parole furono vergate infatti da uno dei più geniali polemisti della sinistra, una penna corrosiva e sarcastica come poche: insomma da Luigi Pintor sul Manifesto che poi raccoglierà i suoi corsivi, insieme a quello sui “mostri”, in un libro illustrato da Tullio Pericoli. Condividendo, questo è il punto, una sensibilità molto diffusa a sinistra. Ma ben prima della “mutazione genetica” che dal ‘92 in poi la trascinerà nei gorghi del giustizialismo, fino alla recente sfilata genovese per maltrattare un uomo (ci mancavano solo le torce), un nemico politico tenuto inerme agli arresti domiciliari. Che salto, rispetto ai “mostri” pintoriani. Che ribaltone culturale, politico, persino esistenziale.
Allora, tanto tempo fa, prima della mutazione genetica giustizialista, c’era Magistratura democratica, che ai suoi inizi e nei primi decenni di vita agiva in una versione persino un po’ vulnerabile agli influssi del garantismo: oggi quella sigla risulterebbe irriconoscibile, con uno stato maggiore della magistratura accarezzato e omaggiato dalla sinistra che si offende per ogni critica, fa la voce grossa contro ogni dissenso garantista. Certo, quelli di Md erano estremisti e oltranzisti antisistema. Erano scatenati contro uno dei princìpi dello stato di diritto e che loro consideravano piuttosto come la maschera della “giustizia di classe”: il “dogma dell’apoliticità” del giudice che invece doveva essere parziale e non imparziale, militante e persino emancipato dal rispetto formale dalla lettera della legge.
Però. Però nelle teorizzazioni di un fine giurista come Luigi Ferrajoli c’era un’attenzione ai diritti individuali molto pronunciata, anche per gli standard dell’epoca. Quando scoppiò il “caso 7 aprile”, con la retata che avrebbe dovuto prosciugare lo stagno della simpatia complice nei confronti del terrorismo, molti di Magistratura democratica innescarono una polemica durissima con la corrente forcaiola del gruppo che di quel caso era invece diventata protagonista, se non addirittura motore primo. Fecero battaglia contro l’avvitamento poliziesco della “legge Reale”. Intervenivano frequentemente su Radio Radicale, che del minoritario garantismo italiano è sempre stato un santuario. Si familiarizzavano con il linguaggio delle garanzie che costruivano un argine contro lo strapotere dell’accusa. Addirittura denunciavano indignati – davvero un’altra era geologica – l’eccesso di magistrati passati alla politica istituzionale, con una polemica che non risparmiò nemmeno Oscar Luigi Scalfaro, allora considerato un retrogrado baciapile, non ancora santificato come il presidente della Repubblica che detestava Berlusconi.
Quelli di Magistratura democratica erano estremisti antisistema, ma nelle teorizzazioni di Ferrajoli c’era grande attenzione ai diritti individuali
Anche nel cinema, nella rappresentazione simbolica, si profilava un dualismo contraddittorio ma vitale. Un film di Nanni Loy, “Detenuto in attesa di giudizio” con un bravissimo Alberto Sordi interprete di un ruolo drammaticamente straziante, denunciava le mostruosità (ancora mostri, ancora Pintor) di una giustizia ridotta a macchina di tortura, le nefandezze della carcerazione preventiva, l’onnipotenza di uno stato che stritola senza pietà i suoi cittadini, il diritto alla difesa vanificato o addirittura scomparso, l’arroganza di magistrati che lasciano marcire in galera gli innocenti impotenti da non riuscire nemmeno a far sentire le loro ragioni, errori giudiziari reiterati, l’individuo alla mercé di un Leviatano arrogante e medievale, l’assenza disperante di qualsiasi “habeas corpus”. Questa è la parte garantista, anche con qualche venatura libertaria. Poi c’era un film diretto alla grande dal geniale Dino Risi, “In nome del popolo italiano”, con il magistrato Ugo Tognazzi che voleva punire, più che un banale reato, l’antropologia disgustosa di un individuo che appariva ai suoi occhi come l’incarnazione della cialtronaggine, Vittorio Gassman. L’integerrimo magistrato ha pure le prove in mano dell’innocenza dell’industriale eticamente spregevole, ma le nasconde perché la sua missione non è perseguire un reato, ma purificare la società dal morbo di un sistema in cui prevalgono i mascalzoni. Un film che raffigurava con grande acume l’odio morale per un’Italia che gioiva sguaiatamente con le bandiere in piazza per la vittoria della Nazionale di calcio ma che nello sguardo del magistrato appariva come la sentina di ogni vizio, terreno fertile per i cialtroni come il personaggio di Gassman. Un’azione purificatrice che poteva anche calpestare i princìpi del diritto se fossero stati di intralcio, anche a costo di tenere in galera un innocente.
Ecco, caduto il Muro di Berlino, la sinistra di matrice comunista, abbandonato il primato dell’economia, si è votata al (presunto) primato dell’etica. Si è identificata in toto con Ugo Tognazzi, il magistrato che nasconde le prove e ha giurato guerra eterna ai nemici da colpire anche con le armi acuminate della giustizia, l’archetipo di un tipo di magistrato venerato dalla folla nella sua opera di demolizione del sistema, Prima o Seconda Repubblica che sia.
Il garantismo, da eresia, diventò peccato. Lanciarono le monetine al Raphael insieme a fascisti e leghisti inaugurando il moderno populismo giudiziario. La prima retata purificatrice da scagliare contro gli altri, i nemici: e da qui il “popolo del fax”, “grazie Di Pietro”, i magistrati angeli vendicatori. Poi, dato che c’è sempre un epuratore più epuratore, anche a sinistra cadde qualche testa. Difesa debole (o inesistente, come nei casi di Filippo Penati, di Ottaviano Del Turco, pure socialista dunque mela marcia per definizione, o del sindaco di Lodi Simone Uggetti, vittima di una vicenda giudiziaria allucinante). E invece grande sfoggio di retorica super-istituzionale per camuffare la soggezione e la subalternità: “Piena fiducia nella magistratura”, “lasciamo che la magistratura faccia il suo corso”, “attendiamo con fiducia l’esito delle indagini giudiziarie” e così via. La stessa Magistratura democratica ne venne travolta. La sua parte più tradizionalmente garantista, decapitata. Caddero, al seguito di complicate vicende di intercettazioni e di spionaggio con le cimici piazzate in un bar capitolino, le teste di Michele Coiro, uno dei fondatori di Md, capo della Procura di Roma, in passato membro del Consiglio superiore della Magistratura che nel ’95 lo sottoporrà alle forche caudine, messo sotto accusa per eccessiva vicinanza amicale con il giudice Squillante, coinvolto nella vicenda Previti: morirà di ictus nel 1997. In quell’avvelenato contesto romano, dove la “narrazione”, si direbbe oggi, raccontava di un clima di contiguità, legami trasversali e commistioni amicali, si consumò l’amara sorte della “toga rossa” Francesco Misiani, anch’egli tra i fondatori di Md, messo sotto accusa e poi assolto “perché il fatto non sussiste”, ma oramai messo ai margini della stessa vita associativa della magistratura (passerà i suoi ultimi anni facendo l’avvocato).
Ogni tentazione “garantista” venne cancellata e la vicenda della drammatica frattura dentro la corrente di sinistra Magistratura democratica ne fu l’emblema. Era cambiato tutto perché con il crollo del Muro di Berlino e la fine del Pci davvero tutto era cambiato. Solo che la cultura del Pci, abbandonato Marx e il primato dell’economico e della “struttura”, invece di andare verso Filippo Turati, verso il socialismo democratico e riformista, nella famiglia che poi solo dopo decenni è risultata la comune casa europea, passò direttamente verso Gobetti, un martire che però, mentre si addensavano le ombre del fascismo, tesseva “l’elogio della ghigliottina” e detestava i partiti dell’epoca prefascista, il popolare e il socialista, deplorandoli come “partiti del ventre” (testuale).
Sull’onda del messaggio berlingueriano della “questione morale” in cui si accreditava l’idea di un partito geneticamente diverso e immune da ogni peccato etico (ecco il magistrato interpretato da Tognazzi del film di Risi “In nome del popolo italiano”), al posto dell’Italia operaia, dell’Italia del lavoro, l’Italia della tradizionale base sociale della sinistra si fantasticò di una sinistra incarnazione dell’“Italia civile”, dell’“altra Italia”, dell’Italia “perbene”, dell’Italia delle minoranze virtuose coinvolta in una lotta all’ultimo sangue contro l’Italia dei corrotti, degli evasori, dei cialtroni. Solo che questa missione di palingenesi purificatrice non poteva che essere affidata alla magistratura.
E così è stato. Invece della politicizzazione della magistratura si dovrebbe parlare della “giuridicizzazione” della politica: la politica che balla al ritmo delle inchieste giudiziarie, che non ha più nulla da dire sull’abuso della custodia cautelare, sulla condanna mediatica a processo non ancora iniziato, sulla non separazione delle carriere tra magistratura e sistema mediatico, sulla pioggia di intercettazioni da pubblicare anche senza alcun rilievo penale (“ti amo”, “la sguattera guatemalteca”, fino alla clamorosa fake news della “culona inchiavabile”, un’intercettazione inesistente passata per vera), e ora gli arresti domiciliari da interrompere solo se l’indagato fa atto di sottomissione abbandonando il suo ruolo politico democraticamente sancito.
Con qualche timido accenno mitigatorio, come i provvedimenti dell’allora ministro Andrea Orlando, immediatamente cancellati con atto di sottomissione e istinto suicida da burbanzose e forcaiole leggi “spazzacorrotti”, approvate sull’altare delle nuove alleanze con i 5 stelle. E ora il corteo di Genova contro il nemico agli arresti. Erano meglio le febbrili fantasie sulla “giustizia di classe” tanto care alla vecchia e ancora non epurata Magistratura democratica?