Metti un Goodbye Lenin, la famosa pellicola ispirata al ricordo un po’ nostalgico della socialista Germania Est, ispirato però al M5S. Metti una attivista o un attivista i cui ricordi siano fermi al 2013, l’anno del prorompente ingresso in Parlamento, e si risveglia improvvisamente nel 2024, con un processo ricostituente dei 5 Stelle alle porte. Scoprirebbe che ovviamente il mondo è cambiato, ma il Movimento di più. In meglio o in peggio, ognuno avrà la sua idea; però la crisi di consensi degli ultimi anni, probabilmente, è figlia della normalizzazione di un esperimento che voleva essere rivoluzionario e invece è stato inghiottito dalle proprie contraddizioni.
Il posizionamento politico
I 5 Stelle che sbarcano a Roma nel febbraio 2013, forti di 8,7 milioni di voti alla Camera, primo partito sul territorio nazionale e all’esordio alle Politiche, si definiscono “né di destra né di sinistra”. Non è solo uno slogan ma è un progetto, nel senso che quel M5S propugna la palingenesi (il vaffa-day) del sistema politico, quindi di una fase precedente rispetto alla normale divisione dell’arco politico, basata su interessi e visioni della società diverse. Anche per questo quel Movimento porta via voti soprattutto all’area Pd, Italia dei valori e sinistra radicale in alcune parti del Paese, alla Lega Nord e al Pdl in altre. E sempre per questo elegge parlamentari che poi lasceranno i 5 Stelle per accasarsi chi a destra, chi al centro e chi a sinistra, con una distribuzione abbastanza equanime. Chi comunque partecipa ai primi meetup e alle prime assemblea dei 5 Stelle, a prescindere dal proprio passato politico, a volte anche decisamente connotato, generalmente fa un motivo di orgoglio, anche ostinato, nel non volersi incasellare a sinistra o a destra. Oggi il M5S ha fatto una scelta ben precisa, dopo vari sbandamenti e numerose ambiguità. A livello europeo si è accasato in The Left, la sinistra radicale rossoverde; a livello italiano promuove il cosiddetto “campo giusto”, un fronte progressista alternativo al centrodestra. Alle scorse europee i 5 Stelle hanno preso 2,3 milioni di voti.
Le alleanze
Nel 2013 e fino al 2018 per il M5S qualsiasi collaborazione con altre forze politiche, comprese le liste civiche a livello locale, era assolutamente vietata. Tutti gli altri partiti erano considerati corrotti e irriformabili in eguale misura. Votare 5 Stelle doveva significare rifiutare il vecchio e scegliere “il nuovo”. Qualsiasi ragionamento politico ed elettorale, ad esempio ai ballottaggi, era rifiutato con sdegno. Per questo ai secondi turni il M5S, se rimasto fuori dalla contesa, non esprimeva mai preferenze rispetto a un candidato di destra, di sinistra, o civico, anche se magari per biografia o sensibilità poteva apparire più vicino ai temi del Movimento. Questo sempre perché anche il miglior candidato al mondo aveva alle spalle “i partiti”, tutti marci tranne il M5S. Che però rifiutava di definirsi partito.
Anche nelle battaglie referendarie, ad esempio contro in nucleare e per l’acqua pubblica, il Movimento – che pure le appoggiò – si tenne lontano da ogni collaborazione con i partiti che lo promossero.
Dopo il secondo successo delle Politiche del 2018 il M5S, come primo partito alle elezioni, deve scegliere se formare un governo con la destra o con la sinistra, oppure se tirarsi fuori del tutto. Sceglie di contrarre il cosiddetto “contratto di governo” con la Lega, specificando che non si trattava di una alleanza. Ma di fatto fu una scelta che smentiva le dichiarazioni di principio fatte fino ad allora. Dopo quel governo ci furono l’alleanza con il centrosinistra e poi le larghe intese a sostegno del “tecnocrate” Mario Draghi.
Adesso i 5 Stelle partecipano al gioco politico esattamente come tutte le altre forze politiche, in coalizioni e alleanze, generalmente di centrosinistra, oppure con liste civiche e della sinistra radicale. Nel 2024 per la prima volta hanno eletto una presidente di Regione, Alessandra Todde in Sardegna, correndo con Pd, Alleanza verdi sinistra e altre formazioni locali.
La struttura del Movimento
Nel 2013 c’erano due leader assoluti, cioè i fondatori: Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio. Il comico era il volto pubblico che trascinava le piazze, Casaleggio il visionario che diede una struttura tecnica e filosofica al Movimento, dove la cosiddetta rete, cioè il web, doveva sopperire alla mancanza di corpi intermedi. Solo che le decisioni venivano prese tra Genova e Milano, tra la villa di Sant’Ilario del comico e la sede della Casaleggio associati, le comunicazioni ai territori (se concedere il simbolo, dove, le fulminee espulsioni) erano diramate sul blog di Grillo, spesso con un post scriptum alla fine dei post, oppure comunicate da un non ben identificato “staff”. La liquidità era assoluta. Modus operandi che cozzava con l’ideale assolutistico della democrazia diretta. I referenti territoriali erano più che altro personaggi legati alle prime liste civiche degli Amici di Beppe Grillo – si chiamavano così – che avevano avuto modo di conoscere personalmente il comico e che quindi potevano vantare e far pesare un rapporto diretto con il dominus.
Dopo un passaggio ad un direttorio a cinque composto da Luigi Di Maio, Roberto Fico, Alessandro Di Battista, Carla Ruocco, Carlo Sibilia, venne istituita la figura del capo politico, cioè Di Maio. Alla morte di Casaleggio, la struttura tecnica venne affidata al figlio, Davide. Grillo da allora si è via via defilato, ricoprendo il ruolo di garante.
Tra il 2020 e il 2021 il M5S dà il via agli Stati generali, una specie di congresso in cui si decise di tornare a una gestione più collegiale. Scelta rimangiata quando il Movimento in crisi viene affidato a Giuseppe Conte, che torna di fatto ad essere il capo politico. La struttura odierna del M5S – che ha anche una sede fisica, a Roma – è quella di un partito classico, con cinque vicepresidenti, referenti regionali, capi dipartimento e così via. Quasi tutti però nominati direttamente da Conte.
Le regole
Ora come ora sembra fantascienza, ma agli esponenti del M5S era vietato andare in televisione e confrontarsi con gli esponenti delle altre forze politiche. La bolognese Federica Salsi venne espulsa con ignominia per essere andata ospite di Giovanni Floris a Ballarò. In generale il rapporto con i giornalisti era conflittuale. Poteva succedere che i colloqui con i cronisti nei luoghi pubblici venissero ripresi con delle telecamerine dagli attivisti. Anche solo parlare con un giornalista era comunque visto con sospetto. Sul blog di Grillo venne inaugurata la rubrica “giornalista del giorno” per prendere di mira coloro che si erano contraddistinti per articoli non graditi.
I deputati non potevano chiamarsi onorevoli, ma cittadini o portavoce. Era prevista la rotazione trimestrale dei capigruppo di Camera e Senato con persone sempre differenti. Lo stipendio massimo consentito, per gli eletti e per i membri della macchina parlamentare, era di 5 mila euro lordi al massimo. Le eccedenze rispetto all’indennità dovevano rimpinguare un fondo per le piccole e medie imprese. Tutte le spese collegate al ruolo (dai taxi all’alloggio) dovevano essere rendicontate pubblicamente su un sito apposito, consultabile da chiunque.
Nel 2024 gli esponenti del M5S interagiscono normalmente con i media, mentre sul piano economico sono tenuti a versare una quota al partito, pratica in uso in tutti i partiti da decenni.
Le candidature
Agli esordi chi voleva candidarsi ad un ruolo elettivo per il M5S doveva essere iscritto da almeno sei mesi al blog di Grillo e a Rousseau poi, partecipare alle cosiddette “graticole”, delle specie di provino-interrogazioni assembleari, e poi venire votato online dagli iscritti al blog di Grillo. Si entrava in una lista in ordine alfabetico, non erano consentite candidature multiple né candidature fuori dal proprio territorio di residenza. Era vietato lasciare un ruolo per candidarsi ad altro. La tagliola del secondo mandato era ferrea: basta aver fatto due mesi in un consiglio municipale per vedersi messo in conto un mandato.
Il sistema delle graticole non esiste più, restano delle votazioni online sul sito del partito per decidere chi entrerà in una lista ma sia Di Maio che Conte hanno comunque candidato personalità esterne e di loro fiducia. Le candidature multiple e “fuori area” ora sono possibili, così come la possibilità di lasciare un ruolo elettivo per candidarsi altrove, anche questo un sistema di cui tutti gli altri partiti fanno uso.
La regola del secondo mandato rimane, ma mitigata. Un mandato da consigliere comunale è abbonato, mentre i ruoli di governo non sono conteggiati. Grillo vorrebbe mantenere questo assetto, già riformato, ma la classe dirigente del M5S preme per superare ulteriormente il vincolo.
Il finanziamento
Il primo M5S era acerrimo nemico di ogni finanziamento pubblico, verso i partiti ma anche verso gli organi di informazione. Oggi il Movimento accede ai fondi del 2 per mille, suddivisi in base alle scelte dei contribuenti in fase di dichiarazione dei redditi. Soldi che contribuiscono al funzionamento della struttura.
Le battaglie identitarie
Ci sono poi argomenti e lotte scomparse dai radar del Movimento. La connessione con il movimento No Tav ad esempio fu molte forte agli esordi, oggi è morta e sepolta. Nel programma del 2013 si propugnava l’abolizione di Equitalia, un referendum sulla permanenza nell’euro, la creazione di un “politometro” per verificare arricchimenti illeciti dei politici negli ultimi 20 anni, l’eliminazione delle province. Proposte in alcuni casi lasciate nel dimenticatoio, in altre smentite del tutto.
Il reddito di cittadinanza, proposta che parve avveniristica, diventò realtà con il governo gialloverde. Poi Giorgia Meloni lo ha smantellato, ma è stato un provvedimento che, assieme al grido “onestà-onestà” è forse rimasto davvero distintivo per il M5S di ieri e forse di oggi.
Il linguaggio
L’ascesa del M5S, con Grillo in prima linea, è stata anche quella di un linguaggio irriverente ma a volte anche violento, teso più a fomentare la rabbia che a trasformarla in motore di cambiamento. La V maiuscola nella parola Movimento dentro il simbolo delle cinque stelle, del resto, sta(va) per vaffanculo e per V per vendetta.
Resterà purtroppo nella storia, probabilmente, un post sul blog di Grillo dedicato a Laura Boldrini dove si chiedeva: cosa le faresti se foste in macchina insieme? Dando la stura a centinaia di ignobili commenti sessisti. La macchina social del consenso si basava, anche, su vagonate di shit storm ad avversari politici e giornalisti, oltre che a slogan truculenti e sovversivi.
Questa metodologia, in parte poi mutuata ad esempio dalla Lega di Matteo Salvini con la Bestia, è stata definitivamente abbandonata con l’arrivo di Conte.
Nomi, volti, addii
Nel 2013, a parte Grillo e Casaleggio, o il sindaco di Parma Federico Pizzarotti, il M5S era composto da autentici sconosciuti e qualche fiancheggiatore eccellente, come non ricordare Dario Fo e Fedez, con il rapper autore di un inno donato alla causa che tirava in mezzo Giorgio Napolitano? Tornando agli eletti: persone che nella stragrande maggioranza dei casi non avevano mai fatto politica nelle istituzioni e nei partiti. Età media più bassa che nelle altre forze politiche, livello di istruzione idem. Nel bene e nel male, fu una ventata popolare dentro il Parlamento.
Ne uscirono personaggi pittoreschi e improbabili, ma pure esponenti entrati a pieno titolo nel panorama politico. Di quella leva del 2013 non è rimasto praticamente più nessuno con un ruolo tangibile: giusto l’ex presidente della Camera Fico e lateralmente le ex sindache Chiara Appendino (Torino) e Virginia Raggi (Roma) hanno resistito allo tsunami di questi anni. Nell’area comunicazione, invece, ha mantenuto inalterata la propria centralità, passando indenne dai vari sommovimento, Rocco Casalino.
Di Maio e Di Battista sono usciti, con esiti e posizioni attuali che non potevano essere più diversi: uomo-sistema ben remunerato il primo, movimentista anti-sistema senza prebende il secondo. Anche Casaleggio junior è stato estromesso. La vecchia guardia che non ha lasciato, finiti i due mandati, è sparita dai radar e al massimo fa parlare di sé per le foto dei propri addominali (Danilo Toninelli).
Pochissimi hanno ricevuto il bonus della consulenza pagata dal partito per continuare a fare politica a tempo pieno: come la vicepresidente Paola Taverna e Vito Crimi. Oltre ovviamente a Grillo, guru, fondatore, capo blandito e oggi ignorato, relegato al ruolo di garante senza cartucce ma con in cambio 300 mila euro l’anno. Finché durerà.