Provincialismo e politica internazionale. Senza bisogno di inventare nulla, semplicemente registrando cosa si dice e si scrive in Italia su questi argomenti, mettiamo a confronto una disputa seria sulla politica internazionale e una che non lo è.
Fin dai primi giorni dell’invasione dell’Ucraina è feroce lo scontro fra chi (la maggioranza) condanna Putin e chi (una minoranza robusta) sostiene che la guerra sia il frutto della protervia occidentale, che quella di Putin sia stata solo una mossa difensiva volta a contrastare l’imperialismo americano. Comunque la si pensi si tratta di una disputa seria, perché mette in gioco due opposte «visioni del mondo», due opposte concezioni del dover essere politico. È la spia di uno «scontro di civiltà». Anche se in un contesto mutato, non siamo molto lontani dalle divisioni dei primi anni Cinquanta. All’epoca, i «Partigiani della pace» accusavano gli Stati Uniti di essere dei guerrafondai, i veri responsabili della Guerra fredda, una minaccia per la pace in Europa. Mentre l’Unione Sovietica si limitava a difendersi dall’imperialismo yankee. Anche se la «patria del socialismo» e il «sol dell’avvenire» sono stati spazzati via dal palcoscenico della storia, gli eredi (più o meno inconsapevoli) dei «Partigiani della pace» dicono oggi le stesse cose. Ora come allora è l’America la causa dei mali del mondo (invasione russa dell’Ucraina inclusa).
Sullo sfondo, ci sono due opposte visioni di cosa sia, o di cosa dovrebbe essere, la democrazia. È uno scontro fra valori incompatibili, è la lotta fra chi detesta la società occidentale e chi la apprezza e la difende. Per inciso, anche la posizione su Israele è, ed è sempre stata, una spia dell’atteggiamento a favore o contro il mondo occidentale.
Da una disputa seria passiamo a considerarne un’altra che seria non è.
Sembra lecito definire per lo meno stravagante la tesi secondo cui chi tifa, qui in Europa, per Kamala Harris o per Donald Trump avrebbe necessariamente fatto una scelta di campo: a favore dello schieramento (interno e internazionale) «di sinistra» oppure dello schieramento «di destra». Spostandosi dalla prima disputa alla seconda si passa da un serissimo scontro di civiltà a un modesto spettacolino di provincia.
La seconda disputa non è seria, però sono serie le ragioni che spiegano perché ci siano persone che «se la bevono», che scambiano uno spettacolo un po’ sgangherato per una buona pièce teatrale. Chi allestisce e interpreta lo spettacolo suddetto sfrutta una tradizione, ormai esausta e sfilacciata, ma che continua ad esercitare una certa influenza nell’Italia pubblica. Per decenni, l’immobilità, la rigidità degli schieramenti internazionali, e il fatto che l’Italia non dovesse, in quelle condizioni, confrontarsi ogni giorno con la necessità di fare scelte di politica estera impegnative e rischiose, aveva alimentato, sia nell’opinione pubblica che nella classe dirigente, una forte tendenza alla chiusura provinciale: non aveva senso occuparsi di ciò che avveniva al di là della frontiera, ci si doveva preoccupare solo di quanto accadeva nel cortile di casa. Ne derivò, per molti, una sorta di politicizzazione, o meglio di «partitizzazione», più o meno integrale, dei cervelli (una malattia per cui non si è mai trovato alcun vaccino). Anche quando, di tanto in tanto, si gettava uno sguardo distratto sulle vicende del mondo, esse venivano comunque lette e interpretate alla luce delle convenienze della tribù, della fazione indigena, di destra o di sinistra, in cui gli uni o gli altri si identificavano.
Oggi in tanti sono stati costretti a liberarsi del provincialismo di un tempo. Stanno prendendo atto che in un mondo sempre più pericoloso e in continuo mutamento restare ancorati a certi modi tradizionali di leggere quanto accade intorno a noi non ha più senso. Si sforzano di abbandonare i vecchi pregiudizi. Ma ci sono altri che non ne sono capaci, che restano aggrappati alle vecchie abitudini. Sono persone pronte a sposare una interpretazione squisitamente partigiana del confronto Harris/Trump. Non possono accettare l’idea che, quali che siano le motivazioni che spingeranno gli elettori americani a votare per l’una o per l’altro, dal punto di vista europeo, la distinzione fra destra e sinistra, in questa faccenda, non c’entri nulla. Dal punto di vista americano, benché non sia certamente l’unica ragione che guiderà le scelte elettorali, c’è anche , nel duello Harris /Trump, il confronto fra «liberals» (che non significa liberali nel senso europeo del termine) e conservatori. Ma dal punto di vista europeo, a contare è ben altro. A contare è il rapporto fra Europa e Stati Uniti, è il fatto che, a seconda di quale sarà la prossima Amministrazione americana, sopravvivrà (sia pure indebolita) la partnership euro-atlantica oppure l’Europa si troverà improvvisamente nella necessità di dover fare da sola, di provvedere autonomamente alla propria sicurezza. Con scarse probabilità di riuscirci. È puerile ricondurre una questione esistenziale di questa portata e di questa natura alla solita, fiacca e scontata divisione fra destra e sinistra.
Dalla fine della Seconda guerra mondiale ad oggi l’Europa, grazie al legame atlantico, è vissuta in pace e in libertà, diventando assai prospera. Si trattava e si tratta (per l’Europa) del migliore dei mondi possibili. Mentre tutt’intorno tagliagole di ogni colore politico calpestavano, e tuttora calpestano, i corpi dei loro poveri sudditi. Si spera che, per noi europei, la festa non sia ancora finita.