I leader dei Democratici americani hanno tutti rinunciato a qualcosa delle loro idee per trovare un enorme denominatore comune: battere Donald Trump, cioè l’antidemocrazia e il ritorno al Far west politico – altro che Carl Schmitt – e ridare slancio ottimistico e progressivo agli Stati Uniti. Invece in Italia, dopo qualche buon segnale, i leader fanno il contrario degli americani: alzano la posta.
In parte lo si comprende, ognuno vuole il posto migliore a tavola. Ma ci dovrebbe essere un limite, morale prima ancora che politico. Giuseppe Conte, nell’intervista concessa a Repubblica, quel confine morale lo valica di slancio quando, a due mesi dal voto americano, non prende posizione a favore di Kamala Harris e dicendo che la vittoria dell’assalitore di Capitol Hill non costituirebbe un pericolo per la democrazia perché egli sarebbe stato eletto democraticamente.
Basterebbe citare l’Hitler del 1933, in parte anche il Mascellone del 1924, per smontare questa corbelleria. Trump non usa l’olio di ricino, ma se ritiene sia il caso il Parlamento lo brucerebbe come fece il Führer. Ma nemmeno questo è il punto. Il fatto che l’avvocato continui a non scegliere tra i valori democratici di Kamala Harris e il para-fascismo di The Donald e i suoi terribili seguaci (tra i quali questo bislacco Robert Kennedy jr, una macchia umana sulla grande famiglia democratica) è inaccettabile per qualunque democratico.
«Dovremo dialogare con qualunque presidente»: e allora uno non esprime una preferenza? Perché parla con la prudenza di un ministro degli Esteri, che non è e (speriamo) non sarà mai? Nella stessa intervista, non una parola sul diritto dell’Ucraina di difendersi fino alla vittoria, non una parola sul diritto di Israele a esistere nella prospettiva di «due popoli due Stati», non una sillaba sul rigurgito di antisemitismo, ma invece una critica a Giorgia Meloni per l’unica cosa seria che ha fatto (sin qui), ovvero stare con l’Occidente. Non come lui, che fece scorrazzare i camion russi all’inizio della pandemia senza che nessuno ne sapesse nulla.
La politica estera si fonda sui valori. Conte non è affatto ambiguo: è esplicitamente contro i valori più profondi dell’Occidente liberale e democratico. Forse lo fa per togliere un’arma ad Alessandro Di Battista, suo probabile rivale come capo del «terzo polo populista». Nel tentativo di risalire la china, Conte corteggia l’estremismo antiamericano lasciando intendere che Harris o Trump è sostanzialmente la stessa cosa, e per questo è dunque un problema per la coalizione democratica.
Solo Elly Schlein può risolverlo, tentando di portarlo a più miti consigli attraverso una pubblica e se necessaria dura battaglia politica, e con lei tutto il Pd, dai riformisti alla sinistra che dovrebbe condividere l’entusiasmo di Roberto Speranza planato a Chicago per la Convention e magari anche scontrandosi con le quinte colonne contiane che nel Pd si eccitano per quel mezzo matto di Jean Luc Mélenchon. La lotta politica deve iniziare subito per ridimensionarlo prima che sia troppo tardi: altrimenti è chiaro che Giuseppe Conte farà perdere voti. E con uno così, Schlein Palazzo Chigi lo vedrà col binocolo.