Ottaviano Del Turco e la persecuzione giudiziaria mai condannata dal Pd

La mano pietosa della Provvidenza ha liberato Ottaviano Del Turco da una vita che da tempo era solo sofferenza per sé e per i suoi cari. Ora riposa in pace. Tocca a noi restituirgli quella giustizia che gli fu negata dal 14 luglio del 2008, attraverso una persecuzione giudiziaria insensata e colpevole che fino all’ultimo – benché ad ogni grado di giudizio cadessero le accuse più gravi e infamanti una dopo l’altra – si è rifiutata di riconoscere in toto il grave errore giudiziario che ha minato per sempre la vita di un servitore dello Stato, di un «giusto».

Su chi è stato Ottaviano Del Turco e di che cosa ha compiuto tra i protagonisti della storia di questo Paese hanno parlato a lungo i Tg, mettendo a punto a ogni edizione una versione sempre più corretta. Persino la Cgil – di cui Del Turco era stato un prestigioso e stimato dirigente e che durante il suo calvario giudiziario aveva fatto finto di non conoscerlo – davanti al momento solenne della morte si è ricordata di chi le dedicò la parte migliore della vita.

«’A nome mio e di tutta la nostra organizzazione esprimo profondo cordoglio e vicinanza alla sua famiglia». È quanto si legge in una nota del segretario generale della Cgil Maurizio Landini. «Fu un dirigente di primo piano del nostro sindacato fino a ricoprire l’incarico di segretario generale aggiunto dal 1983 al 1992 in una fase complessa della storia della Cgil e del sindacato confederale, dove si sono confrontate idee e proposte di diversi modelli sindacali e di rapporto tra sindacati e forze politiche». In queste ultime parole, c’è la sottolineatura di un passaggio critico che mise in forte difficoltà la stessa unità della Confederazione: il decreto del 14 febbraio 1984 con cui il governo Craxi intervenne sulla ‘’scala mobile’’ per rallentare la crescita dell’inflazione. La corrente socialista della Cgil guidata da Del Turco condivise quell’operazione insieme a Cisl e Uil, fortemente osteggiata dai comunisti. Del Turco e Lama svolsero ognuno la sua parte, facendo bene attenzione a non attraversare nessuna linea rossa e a non bruciarsi alle spalle i vascelli dell’unità. E ci riuscirono, al di là dellepolemiche. C’è un episodio che rende testimonianza di questa «gran bontà dei cavalieri antichi». Pochi mesi dopo lo scontro sul decreto di San Valentino, Del Turco fu invitato tra gli oratori ufficiali durante le esequie di Enrico Berlinguer.

Vorrei essere stato disattento – e di scusarmi se così fosse – ma non ha visto particolari prese di posizione del Pd (di cui Ottaviano fu tra i fondatori), tranne quelle di singoli esponenti. Io non ero solo un compagno di Del Turco con una lunga vita sindacale intrecciata alla sua; eravamo amici. Fui uno dei pochi in quel maledetto 14 luglio – ero allora deputato – a difendere pubblicamente nelle sedi istituzionali e sui media Ottaviano. Mi avvalsi del diritto riservato ai parlamentari di recarmi al carcere di Sulmona per incontrarlo e portargli la mia solidarietà (ho saputo in questi giorni che lo aveva fatto, in via riservata, anche Franco Marini). Per tutti gli anni in cui è durato il processo, il 14 luglio, chiedevo la parola in Aula per rimarcare l’ingiustizia che aveva colpito – come un fulmine a ciel sereno – il mio amico. Una volta sola, dopo di me, chiese la parola un esponente del Pd: Piero Fassino.

Ricordo ancora il coraggio di Del Turco quando – scarcerato – si presentava alla Camera e si sedeva su di una poltrona in Transatlantico, mi chiamava mentre ero in Aula e io lo raggiungevo e mi sedevo al suo fianco per assistere alla sfilata dei deputati del suo partito che ci passavano davanti concedendogli un breve cenno di saluto. Il solo che si fermò a salutarlo e a scambiare qualche parola fu quel comunista non pentito di Ugo Sposetti. Ricordo anche un silenzio azzardante e diffuso quando il moralismo d’accatto che si era impadronito della stessa legislazione minacciò di togliere a Del Turco, ormai affetto da gravi malattie invalidanti, il vitalizio maturato negli anni in cui era parlamentare. Per fortuna la cosa apparve tanto crudele che venne insabbiata.

Ovviamente non intendo sollevare polemiche. Posso però testimoniare il grande sconforto che divora chi si sente abbandonato da persone con le quali ha comunanza di lavoro e di vita da decenni. Io ho vissuto questo sentimento da vicino insieme a Ottaviano. Ma come a lui è successo a tanti altri onesti amministratori, politici di sinistra (l’elenco sarebbe più lungo di quello dei proscritti filosionisti), di sentirsi abbandonati come un cane in autostrada se incappavano in un avviso di garanzia con relativa gogna mediatica. Questa è una forma di sudditanza alla sacralità delle procure. Una sacralità che non prende di mira solo le persone.

L’ex Ilva è stata massacrata da una congiura mediatico-giudiziaria senza che i sindacati, in particolare la Cgil, abbiano avuto il coraggio di denunciare il killer. Il caso di Ottaviano Del Turco mi ha aiutato a pormi delle domande che magari non mi ponevo in altre circostanze perché non conoscevo a sufficienza le vittime degli abusi giudiziari. Ma come è possibile avere rapporti positivi e normali per decenni con una persona di cui condividi il lavoro, le opinioni, con la quale hai trascorso migliaia di esperienze, e arrivare a rimuovere tutto questo bagaglio di ricordi e di sentimenti, solo perché un magistrato apre un’inchiesta nei suoi confronti? La presunzione di innocenza non può essere solo un diritto garantito dalla Costituzione, ma è un corollario della amicizia, della stima che abbiamo provato fino a quel momento per questa persona, confermate da tanti momenti di vita comune.

L’avvocato Gian Domenico Caiazza, che ha assistito al calvario giudiziario del mio amico, sta raccontando a puntate su di un quotidiano l’intera vicenda processuale nei suoi vari gradi. La cosa più grave è che l’accusatore Vincenzo Angelini, il boss della sanità privata abruzzese, colui che denunciò il presunti misfatti di Ottaviano, fu imboccato dal magistrato inquirente. Scrive l’avvocato Caiazza con riferimento ad Angelini: «Senonché viene contestualmente ad apprendere – sono atti del processo, a disposizione di chiunque vorrà consultarli – che la Procura sta mettendo da tempo il naso nelle sue attività di storno di immense quantità di denaro (già una sessantina di milioni di euro) che egli starebbe da tempo sottraendo alle sue aziende. Brutta storia. Ma forse, gli dice il Procuratore capo dott. Nicola Trifuoggi, questi soldi, o una importante parte di essi, Lei dott. Angelini li ha distratti dalle aziende perché costretto a pagare la politica? Ci pensi bene, perché in questo caso da potenziale indagato (di bancarotta per distrazione, per esempio, ma anche di corruzione), lei diventa persona offesa, vittima, concusso da Del Turco e sodàli, sa quella storia della concussione ambientale, Mani Pulite eccetera. Insomma, ci pensi bene. Il verbale del primo approccio in Procura è testualmente in questi termini». E aggiunge: «Ci penso su, dice Angelini, ingolosito. Dopo qualche giorno, ritorna, per dire: a ben riflettere, oltre sei milioni di quei soldi che ho ritirato in contanti dalle mie aziende li ho dovuti dare alla vorace banda Del Turco. D’altro canto, basta leggere l’incipit della sua “collaborazione”, per capire di cosa stiamo parlando: “Sono qui questa sera perché mi è stato assicurato che sarei stato compreso per quello che più avanti dirò”».

In sostanza, ad Angelini era stata promessa l’impunità se avesse eseguito quegli ordini espressi sotto forma di consigli e suggerimenti. Questa premessa ha un taglio di stampo mafioso. Anni dopo, Nicola Trifuoggi divenne vice sindaco di L’Aquila in una giunta di centro sinistra, creando in seguito dei grossi problemi alla sua coalizione. Quando era ancora in servizio, Trifuoggi fu l’interlocutore di Gianfranco Fini, allora presidente della Camera, nella polemica strisciante con Silvio Berlusconi. Durante un convegno, Fini disse in un fuori onda: «No ma lui (Berlusconi, ndr), l’uomo confonde il consenso popolare che ovviamente ha e che lo legittima a governare, con una sorta di immunità nei confronti di… qualsiasi altra autorità di garanzia e di controllo… magistratura, Corte dei Conti, Cassazione, Capo dello Stato, Parlamento… siccome è eletto dal popolo…». E Trifuoggi risponde: «È nato con qualche millennio di ritardo, voleva fare l’imperatore romano».

Per concludere, nonostante una conoscenza e una frequentazione durate sessant’anni, ignoro quale fosse la posizione di Ottaviano nei confronti della fede. Mi permetto però di affidargli nell’ultimo viaggio una promessa del Redentore: ‘«Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché è di essi il regno dei cieli». (Matteo 5.1-12).