Ci sono cose, pratiche, metodi, che oggi ci sembrano acclarate nel nostro mondo e invece non immaginiamo quante resistenze alcuni precursori hanno dovuto superare per imporle. I delitti seriali, per esempio, oggi vengono affrontati da esperti che indagano unendo i puntini dei vari delitti, mentre una volta le indagini si svolgevano con il metodo classico senza avere una visione d’assieme.
Se qualcuno fosse appassionato del truculento, tremendo, agghiacciante mondo dei serial killer, la visione dell’intera serie (2 stagioni) di “Mindhunter” (su Netflix) – nata da un’idea di Joe Penhall e soprattutto spesso benedetta dalla regia del maestro David Fincher, il migliore regista di sempre sul tema (si pensi a “Seven” e a “Zodiac”), qui anche produttore con Charlize “Monster” Theron – sarebbe altamente consigliata. A me ha molto interessato la prima stagione in cui due innovatori dell’FBI, spalleggiati da una professoressa di psicologia, si mettono ad intervistare criminali autori di efferati delitti in serie per capire come ragionano. La seconda stagione mi e’ piaciuta di meno ed e’ quella dove si introduce la “pratica” ovvero i due tentano di passare dalla teoria (quello che hanno capito attraverso le interviste) alla possibilita’ di indirizzare le indagini ad Atlanta dove un misterioso killer rapiva bambini neri. Insomma la serie fa luce sulla nascita del concetto di omicida seriale, che oggi tutte le polizie del mondo hanno acquisito, ma allora sembrava solo una fissazione di psicologi da quattro soldi.
C’è un solo modo per riuscire a dare la caccia ai serial killer in attività: comprendere come pensano, capirne i ragionamenti per quanto contorti, perversi e letali possano essere, e anticiparne così le mosse. Ma c’è un solo modo per entrare nella mente di un serial killer: parlare con i suoi «colleghi» e predecessori.
L’idea di serial killer, a ben pensarci, è ormai di dominio comune e non viene neppure da chiedersi dove sia nata. È data. È così da sempre. Invece no. Esiste perché un pool di detective dell’FBI, con poche risorse ma le idee chiare, a inizio anni Settanta ha iniziato a chiedersi cosa potesse essere fatto per arginare la diffusione di un fenomeno inquietante come quello oggetto del loro studio.
La persona chiave fu Robert Ressler, poi co-autore del libro fondamentale per la criminologia in quell’ambito investigativo, Sexual Homicide – Patterns and Motives, scritto insieme a Ann Wolbert Burgess e John E. Douglas, suoi sodali in quel percorso destinato a cambiare la storia della caccia a sadici & co.
Tutti e tre sono riconoscibili nella serie, sotto le mentite spoglie rispettivamente di Bill Tench (un Holt McCallany che domina letteralmente entrambe le serie), Wendy Carr (nel film Anna Torv) e Holden Ford (un Jonathan Groff che rappresenta ad avviso di chi scrive l’anello debole del trio protagonista).
La prima stagione – che davvero è una perla assoluta – racconta la fatica, i ragionamenti, le azioni poste in essere e le indagini di chi aveva iniziato a unire i puntini, rendendosi conto della necessità di creare un’unità dedicata solo a quel tipo di omicidi. Affascinante entrare negli abiti di chi ha avuto l’idea seminale di tracciare, collegare, verificare le modalità operative, le spinte psicologiche, i modelli reiterati utilizzati dai criminali, tutti invariabilmente dei deviati. Tra i vari, David Berkowitz, Charles Manson, Richard Speck, Jerry Brudos, Montie Rissel etc.
Letteralmente indimenticabile Edmund Kemper, però, il gigantesco assassino di studentesse che aveva finito con l’uccidere anche la madre, che da sempre lo vessava. Il rapporto che viene a crearsi tra questo personaggio e gli uomini di legge racconta quanto sottile possa essere la linea tra l’idea del pazzo e quella della persona del tutto normale, ma in grado di fare emergere il peggio di sé se posto nelle “giuste” condizioni e spinto al limite da chi ha influenza sulla sua mente compromessa.
La seconda stagione mantiene un bel ritmo e momenti di grande intensità, ma il capolavoro resta la prima ( Domiziano Pontone).