Domanda: nel 1986 la Mostra di Venezia avrebbe selezionato in concorso Nove settimane e mezzo? Risposta: no, non lo selezionò – e probabilmente nessun festival “prestigioso” all’epoca avrebbe inserito nel proprio programma un film che si aggirava pericolosamente sul sottile crinale che divide il “thriller erotico” dal porno soft. Nel 1992 Cannes fece, da questo punto di vista, un salto di qualità: aprì il concorso con Basic Instinct, che però era diretto da un autore già sdoganato, l’olandese Paul Verhoeven che non a caso anni dopo (2016) ha fatto il bis con Elle. Quello sì, un vero thriller erotico nel quale Isabelle Huppert sfoderava una performance di insospettabile sensualità.
Isabelle Huppert è presidente della giuria, qui a Venezia, e già molti si chiedono se la prova di Nicole Kidman in Babygirl, passato in concorso, la conquisterà. Impossibile rispondere. È invece possibile, e doveroso, chiedersi cosa ci faccia, Babygirl, in concorso a Venezia. Curiosamente anche Halina Reijn, la regista, viene dai Paesi Bassi come Verhoeven, ma in quanto a talento, profondità e capacità di provocazione siamo a millenni di distanza. Il film vede Nicole Kidman nei panni (e più raramente senza i panni) di Romy, dirigente ricca e spregiudicata di un’azienda newyorkese che lavora nel settore della robotica e dell’intelligenza artificiale. Romy è felicemente sposata con Jacob (Antonio Banderas), regista teatrale: la primissima inquadratura è il volto di Romy impegnata in un clamoroso orgasmo, in compagnia appunto di Jacob; più avanti nel film rivelerà al marito di non aver mai provato piacere con lui, e noi sospetteremo fortemente che stia mentendo. Il problema è che dopo quella divertente nottata Romy va in ufficio e conosce Samuel, un giovane stagista dai comportamenti birichini. Succede, l’avete già capito, di tutto: inizialmente Romy crede di condurre il gioco, ma ben presto i ruoli si capovolgono e il giovane Samuel si rivela un manipolatore assai più astuto e scafato della matura manager.
Alberto Barbera ha dichiarato, giustamente, che in questa Mostra c’è molto eros, declinato in molte forme. È vero. Come è vero che, rispetto ai tempi dei citati Nove settimane e mezzo e Basic Instinct, la soglia della rappresentabilità cinematografica del sesso si è molto spostata. Ma c’è un piccolo dettaglio, che piccolo non è: un dettaglio che dice molte cose sull’epoca culturale che stiamo vivendo. E il dettaglio è: la soglia si è spostata, ma si è spostata all’indietro. Oggi girare scene di sesso è diventato quasi un tabù. Pochi sanno che sui set, quando è necessario, lavora una nuova figura professionale che si chiama intimacy coordinator: è quasi analoga agli stuntmen, nel senso che deve pianificare – con registi e attori – le azioni da fare, e indicare agli attori come farle affinché nemmeno il minimo sospetto di molestia (con possibili, successive lamentale e denunce) aleggi sul set. Puoi toccare qui e non là, puoi mostrare questo ma non quello, eccetera eccetera.
L’intimacy coordinator è colui che oggi imporrebbe di non girare la scena del burro in Ultimo tango a Parigi e ordinerebbe a Sharon Stone di rimettersi le mutande in quella famosa inquadratura di Basic Instinct. In questo senso Babygirl è un film non di Halina Reijn, né di Nicole Kidman, ma di Lizzy Talbot: una professionista che svolge il ruolo di intimacy coordinator ormai da anni, e ha lavorato come tale – ad esempio – nella famosa serie Bridgerton, perché su queste cose le serie sono ormai assai più audaci dei film. Il risultato di questa “cultura”, che nasce dal politicamente corretto e dalle giuste istanze del MeToo, è che Babygirl è un film in cui si accenna molto al sesso ma lo si vede pochissimo.
Nicole Kidman si presta a scene audaci, ma si permette un unico nudo, assai casto e “coperto” perché la scena prevede che il personaggio, Romy, sia molto imbarazzato. Nulla a che vedere con l’abbagliante nudo (solitario e statuario) che apriva Eyes wide shut di Stanley Kubrick, uno degli innumerevoli film che oggi sarebbe assolutamente impossibile girare. Babygirl è un film quasi programmatico: parla di sesso, ma lo fa usando come scusa un racconto che gira intorno al potere, alle dinamiche di dominio e sottomissione sui posti di lavoro, al modo in cui le donne debbono gestire la carriera tenendo sotto controllo anche le proprie pulsioni, i propri desideri, la propria sessualità.
Lungi da noi dire se sia un bene o un male: probabilmente è un bene, perché la storia del cinema è piena di abusi sui corpi delle attrici (e in genere delle donne che lavorano sui set). Ma essere audaci in ciò che si racconta, dovendo al tempo stesso essere bacchettoni in ciò che si mostra, è un’impresa quasi disperata. Babygirl è un film veramente modesto e qua e là abbastanza ridicolo, e per rispondere alla domanda iniziale non è degno del concorso di Venezia, mentre magari ne sarebbe stato più degno Nove settimane e mezzo quasi quarant’anni fa. Poiché Samuel entra in scena ammansendo un cane imbizzarrito, e in una scena che vorrebbe essere torbida ordina a Romy di mettersi a quattro zampe e di bere del latte da una ciotola, vedendolo abbiamo pensato a un altro film oggi totalmente improponibile: La cagna di Marco Ferreri. Quanto ci manca Ferreri, la sua originalità, la sua spregiudicatezza, la sua intelligenza. Ma se ce l’avessimo, un Ferreri, verrebbe licenziato in tronco dall’intimacy coordinator di turno.