Non credo ci sia molto da discutere sull’illegittimità della scelta della scuola Goethe, un’elementare di lingua tedesca a Bolzano, la cui dirigente ha predisposto per l’anno scolastico entrante una classe differenziale per soli figli di stranieri non germanofoni. L’Italia ha abolito le differenziali nel 1977 e non c’è legge altoatesina che le reintroduca, quindi con ogni probabilità questa classe evaporerà nel cielo delle fumose ipotesi estive. Credo tuttavia anche a una sostanziale buona fede della dirigente scolastica, che deve garantire lo svolgimento ottimale dell’attività didattica e pertanto si è trovata di fronte a una questione più grande di qualsiasi preside o provveditore agli studi: le classi servono davvero ancora a qualcosa?
La suddivisione per classi, su cui si regge la scuola italiana, era stata adottata tempo addietro, in un contesto didattico la cui priorità era uniformare bambini (e poi ragazzi) provenienti sì da ceti diversi ma da ambienti omologhi. E’ il caso di “Cuore”: c’era Ernesto Derossi che era un signorinello di famiglia ricca e c’era il muratorino Rabucco che sporcava dove si sedeva, ma venivano dallo stesso posto, parlavano la stessa lingua, credevano nello stesso Dio, e il maestro aveva solo da far sì che lo svantaggiato non restasse troppo indietro rispetto al coetaneo. In seguito, per abitudine e pigrizia, abbiamo dato per scontato che la scuola fosse l’insieme delle classi, plotoncini di ventisette vogatori tutti sincronizzati nella stessa direzione, dalla stessa linea di partenza alla stessa bandiera a scacchi.
Nel frattempo, però, la società è cambiata. Oggi appare evidente che le esigenze sono differenziate, sia per una più marcata diversità degli ambienti di provenienza (l’immigrazione è un ottimo esempio), sia per una maggiore consapevolezza e disponibilità riguardo alla specificità degli obiettivi utili a ogni singolo alunno. La stessa scuola italiana, negli ultimi tempi, ha dato una spinta in questa direzione: con l’incremento talora disordinato dei piani didattici personalizzati – dovuti alle cause più variegate, dai problemi di salute all’attività sportiva – e con la recente introduzione del docente tutor, che in teoria avrebbe dovuto seguire l’orientamento di singoli allievi secondo le loro inclinazioni, ma che in moltissimi casi si è per ora trovato a doverli gestire nel solito indifferenziato pacchetto-classe.
Immaginate ora un universo parallelo, anzi, basta una Bolzano parallela, in cui la dirigente della scuola Goethe avesse messo a disposizione degli alunni non germanofoni la possibilità di svincolarsi dalla propria classe per seguire lezioni di lingua che consentissero di mettersi al passo in un anno; l’effetto sarebbe stato identico, e positivo, senza ricorrere alla sgrammaticatura della classe differenziale. Ebbene, moltiplicate ora questa soluzione per tutti i casi particolari che vi vengono in mente: dalle elementari alle superiori, c’è chi ha bisogno di recuperare terreno con la lingua, chi preferisce sviluppare l’area psicomotoria, chi ha la testa che va troppo veloce, chi capisce la musica meglio della matematica, e così via. Perché non garantire a ciascuno di questi casi, ovvero a ciascuno studente italiano, una didattica tagliata su misura?
Forse, mezzo secolo dopo l’abolizione delle differenziali, l’ideale sarebbe armarsi di coraggio e passare dalle classi alla scuola: un unico ambiente, in cui tutti gli insegnanti siano a disposizione di tutti e gli studenti fluttuino fra i loro corsi secondo necessità e dietro loro consiglio, da ciascuno secondo le sue possibilità e a ciascuno secondo i propri bisogni. Per ora, lo conferma il tentativo della preside sudtirolese, non si può. Quindi, appena suonerà la prima campanella, tutti divisi in gruppi di ventisette a vergare le stesse stanghette, a costruire lo stesso quadrato sull’ipotenusa, a suonare lo stesso piffero, a leggere lo stesso canto del Purgatorio; salvo poi scandalizzarci in massa quando scopriamo che così non funziona più.