(16/10/22, da Edscuola)
Immaginiamo un regista di cinema deciso a realizzare un film che mostri come funziona una scuola italiana. Per quanto mi riguarda, non ho alcun dubbio, una lunga porzione del film sarebbe dedicata a un collegio docenti. Sono convinto che, dal ministro della PI ad un qualsiasi studioso, ad un documentarista, assistere allo svolgimento di un consiglio dei docenti di qualsiasi scuola è l’operazione più istruttiva (honni soit qui mal y pense) per capire quasi tutto di quella scuola. In quella riunione, comunque da seguire dall’inizio alla fine (come fanno i critici seri di un programma tv o di un film), si rispecchia e riassume il modo di funzionamento di una scuola. Gli addetti ai lavori discutono sull’ordine del giorno, e attraverso le parole, del dirigente e dei professori che intervengono, è possibile farsi un’idea (approssimativa quanto si vuole, ma più veritiera di qualsivoglia verifica) della qualità di una scuola. Non emerge solo la cosa più scontata, lo stile della leadership, ma anche il livello della discussione, il clima complessivo, sereno o perturbato, calmo o acceso, l’organizzazione “concreta” di una comunità professionale.
I professori se non sanno discutere bene insieme significa che non lavorano insieme. La collegialità è una conquista culturale, lasciati a se’ stessi i docenti pensano che possono lavorare da soli e si abbandonano all’individualismo, che e’ tendenza naturale. Ma l’insegnante individualista non può essere bravo, dal momento che mentre un impiegato delle poste svolge il suo lavoro da solo allo sportello, gli insegnanti sono inseriti in un gruppo applicato agli stessi alunni di una classe.
Mancano altri attori importanti della cogestione scolastica, studenti, personale Ata, Dsga, genitori, ma, senza voler sminuire il loro pur essenziale contributo, assistere alla rappresentazione “teatrale” che la componente professionale fornisce è oltremodo significativo.
La scuola “reale” emerge, mentre è “parziale” qualsiasi altra “osservazione” di altri momenti significativi, una lezione in classe, il consiglio di istituto, uno scrutinio, o un montaggio alternato di interviste a questo e quello.
“Come” i docenti discutono tutti insieme, magari in un istituto comprensivo con i vari gradi compresenti, è la spia più importante della macchina scolastica in movimento, può paragonarsi alla spia rossa accesa o spenta dell’olio motore in un’auto. Allo stesso modo una famiglia si svela osservando i suoi componenti seduti a tavola per il pranzo.
La ragione principale sta nell’autoreferenzialità del collegio le cui decisioni si tollera che non abbiano pressochè alcuna capacità di influenzare i comportamenti individuali. Un esempio per capirci subito. I docenti discutono (il CD ha solo potere deliberante sulla didattica) e alla fine approvano una delibera nella quale viene scritto che il primo giorno di scuola nelle classi non si spiega ma si fa conoscenza con la classe. Bene, la delibera sara’ inutile perche’ in pratica in quella scuola ci sara’ qualche insegnante (convinto che la liberta’ di insegnamento consenta di fare tutto cio’ che si vuole) che comincia a spiegare il programma sin dal primo giorno. Chiunque non sia d’accordo non si sente vincolato alle decisioni della maggioranza, perchè l’insegnante nella realtà della nostra scuola è “legibus solutus”, in un quadro di, come vedremo, assemblearismo di fatto senza regole (Piero Romei). Quindi tutt’altro che democratico. Pochissimi in Italia hanno compreso finora che la democrazia s’insegna a scuola e che in quel luogo dove nientemeno si predica la “partecipazione” di genitori e studenti (in una sorta di cogestione sociale) c’è anche un organo di autogestione (dei docenti) che in pratica decide pero’ (paradosso dei paradossi) senza vincolare i suoi partecipanti.
Niente a che vedere con le riunioni del parlamento o del consiglio dei ministri, in cui tutti quelli che prendono la parola alle spalle hanno staff poderosi che hanno studiato i dossier e magari preparato l’intervento parola per parola. Nessun paragone possibile con assemblee sindacali di lavoratori di un’impresa (dove quel che si decide poi si fa) o con i talk show televisivi (dove i tempi e le liti e il canovaccio sono preordinati). No, in ogni collegio docenti (inutile perche’ ogni partecipante fa poi quel che gli pare) si scaricano tutte le pulsioni, le tensioni, le soddisfazioni, le inimicizie e rivalità che si sono andate accumulando nel tempo, magari da anni o decenni. Può essere uno sfogatoio, nel bene e nel male, o una pentola a pressione, un caos assoluto o un’ordinata discussione dove le decisioni vengono assunte perché in precedenza ben ponderate. Il regno dell’improvvisazione e del brainstorming, dove nessuno, dal dirigente agli insegnanti, parla avendo alcuna idea plausibile sugli argomenti; oppure il tran tran burocratico dove si tratta soltanto di formalizzare decisioni già assunte dallo staff dirigenziale. La resa dei conti di vecchie ruggini e contese che si trascinano tra schieramenti contrapposti oppure una di quelle riunioni che si devono fare per forza e allora si tratta solo di farle durare il meno possibile.
La riunione (sull’argomento si veda Cesare Fregola, Riunioni efficaci a scuola, Erickson, 2003) è “l’incontro di più persone, ciascuna delle quali ha un contributo da fornire al conseguimento di un risultato specifico” che può essere: la presa di decisioni; la produzione di idee; l’individuazione di soluzioni; la ricerca di cause; il confronto; la definizione di un programma; la verifica di andamenti; l’approvazione formale di un atto burocratico-amministrativo. Il collegio docenti però, svolgendosi con numerosi partecipanti, assume il rituale dell’assemblea, e condivide con tutte le riunioni una caratteristica peculiare: fa perdere tempo a chi vi partecipa. Se fossero sottoposti alla macchina della verità, tutti i dipendenti scolastici, compresi i dirigenti, al 99% ne farebbero volentieri a meno, tant’è vero che le riunioni on line a cui ha costretto la pandemia sono state salutate in modo favorevole potendosi una riunione seguire da casa tarando liberamente il proprio grado di partecipazione.
Il motivo che spiega questo ostracismo al collegio docenti è la mancanza di senso di buona parte delle sue riunioni, che sono in realtà “pseudoriunioni” inutili che rimandano ad altre successive riunioni in un gioco senza fine. Già un collegio con troppi punti all’OdG, come nei peggiori consigli comunali, sin dalla sua convocazione non nasconde la sua natura “finta”, burocratica, con un sottotesto che evidenzia pochissime decisioni serie da assumere dopo relativo confronto e altre da assumere con lo stesso spirito adoperato dai parlamentari quando approvano un unico maxi-emendamento con centinaia di commi concernenti le più svariate materie.
Un collegio può essere formale o informale, programmato o imprevisto, ma si qualifica in base agli obiettivi che si pone: collegi informativi; collegi decisionali; collegi di coordinamento e verifica; collegi di analisi.
Tutti questi tipi di assemblea possono secondo me, comunque, esser fatti confluire nelle tre tipologie di cui parlò Umberto Eco (Sette anni di desiderio, Bompiani, 1985) in “ L’assemblea desiderante” (pag. 68).
Eco (con Paolo Fabbri) distingueva l’assemblea Giudiziaria, polare, accusatori contro accusati, da quella Deliberativa, in cui forze diverse si confrontano ad armi pari. Ma poi, dal ’77 in poi, è emersa l’assemblea Pulsionale, che non verte né sul passato né sul futuro, ma solo sul presente. “In esse non si tentano né processi né deliberazioni: le forze in gioco si confrontano sul piano della confessione personale”. “Nell’assemblea pulsionale ciascuno mette in pubblico il suo io, il privato prevale sul pubblico, la confessione sul progetto”.
Sono sempre stato convinto che i collegi docenti delle scuole italiane sono il luogo in cui si ritrovano insieme, coesistono cioè, le tre tipologie acutamente descritte da Eco. Il linguaggio che si ascolta in ogni riunione è un ibrido, una sommatoria del “sinistrese” di cui parlava Eco, oggi lo possiamo definire “politichese”, e del “libidinese” (“dove si manifestano flussi di desiderio, bisogni, impulsi a ruota libera, crisi liberatorie”). Il politichese è argomentativo e sillogistico, spiega quello che occorre fare e perché, il libidinese è narrativo, spiega quello che uno sente e le ragioni per cui interviene (sempre usando la prima persona singolare, io penso che, voglio dire che, permettetemi di dire una cosa..).
Un discorso in politichese tende ad instaurare una leadership, sulla base di una presunta verità di ciò che dice, mentre un discorso in libidinese tende ad evitarla. Col politichese si rappresentano gruppi già definiti, non solo politici, ma amicali, col libidinese si costruiscono e si disfano “crocchi” secondo pulsioni occasionali.
E’ chiaro che il rapporto tra numero di partecipanti al collegio e spazio in cui la riunione si svolge (si pensi alla differenza tra un’assemblea svolta in un comodo auditorium e quella svolta in un corridoio o spazio angusto) svolge un ruolo determinante nella trasformazione di molte assemblee da deliberative a pulsionali. I collegi svolti a distanza stanno determinando, visto che ogni partecipante è solo con il suo tablet in una stanza, un inevitabile scivolamento verso la tipologia “desiderante” per cui il rapporto tra situazione sociale, spazi fisici e reazioni psicologiche determina sempre di più il tipo di assemblea che ogni partecipante può attendersi.
La considerazione secondo cui più alto è il numero dei partecipanti (si pensi a scuole con più di cento docenti) maggiore sarà la complessità della gestione della situazione, è ovvia.
Nel caso di collegi docenti di scuole grandi che “debbono” riunirsi per vari adempimenti, crescono le somiglianze con i rituali delle assemblee studentesche descritti da Umberto Eco alla fine degli anni settanta. Infatti, se un collegio è uno dei luoghi della comunicazione interpersonale e organizzativa di professionisti che agiscono con vari ruoli nella vita di una scuola, i repertori emotivi che confluiscono nel campo delle relazioni organizzative trasformano le assemblee da momenti istituzionali normati a vere e proprie assemblee Deliberative e/o Pulsionali. E in ogni caso talvolta, in occasione di scuole finite sui giornali per qualche scandalo, rispuntano fuori le assemblee Giudiziarie con insegnanti che accusano e altri che difendono il dirigente o il professore sotto inchiesta.
In conclusione, qualsiasi sia la tipologia che i collegi finiscono per assumere, a me pare confermato che “le riunioni possono essere fatte rientrare nel campo più ampio dell’apprendimento organizzativo” di una scuola (v. Cesare Fregola, cit.).
Un osservatore neutrale che possa assistere ad un qualunque collegio docenti può capire meglio l’organizzazione di quella scuola. Non soltanto emergono il clima relazionale, gli stili personali più diffusi, i livelli di adesione al proprio ruolo professionale, ma è la scuola stessa che si mostra. L’istituzione scuola, la scuola azienda, la scuola comunità, se non è organizzata non è una scuola, per il semplice motivo che non riesce a produrre apprendimenti e non sa riflettere su sé stessa e su cosa produce.
Infine: la vera prova del nove di un collegio docenti è data dalle riunioni in cui si tratta di deliberare o varare le innovazioni.
Tutte le riunioni in genere sono routinarie, tranne quelle che debbono approvare cambi di indirizzi o modifiche sostanziali del curricolo o della didattica. Sono i veri stress-test delle scuole, che possono creare confusione, scatenare paura incontrollata, sensazioni minacciose ad un corpo docente variegato e con interessi particolari non coincidenti. Il collegio, magari preparato da gruppi di studio, comitati, consulenze, riunioni ristrette, è chiamato a pronunciarsi sul progetto di innovazione in assemblea generale e dunque l’organizzazione della scuola (appresa sino a quel momento) è verificata e messa alla prova. La riunione finale rappresenta dunque il termometro dell’organizzazione, dimostra come, quanto, con quali metodologie e procedure, il corpo docente sa discutere per assumere una decisione impegnativa e tuttavia dalle conseguenze incerte. Forze contrapposte si fronteggiano, il dirigente se non è Pilato è schierato con una parte precisa, e il collegio va in scena.
Così come una rappresentazione teatrale, con grandi attori, un valido regista, un copione collaudato, mesi e mesi di prove alle spalle, si svelerà alla “prima”, davanti al pubblico e alle sue reazioni spontanee, allo stesso modo una scuola (e il suo grado di organizzazione) si svelerà in un collegio docenti importante alla prese con una innovazione da deliberare o respingere. Una sola semplice riunione, un rituale, rivelerà la qualità di una scuola molto più di una lettura attenta di tutti i suoi documenti su “Scuola in chiaro”: il Ptof, il Rav, la Rendicontazione, con tutti i dati numerici, i risultati degli alunni, i cento alla maturità, le statistiche e le prove Invalsi, l’età media dei professori.