Tanti anni fa, ai tempi eroici e talebani dei cineclub, noi cinefili da combattimento snobbavamo Claude Lelouch. Figurarsi: uno che racconta storie d’amore, che incassa miliardi in tutto il mondo e che sotto sotto è un “traditore” della Nouvelle Vague, anche se ci sono foto epocali che lo documentano al fianco di Godard, di Truffaut e di Malle quando nel ’68 si trattò di bloccare un festival di Cannes che era coinciso con il “joli mai”. Come minimo era un servo del mercato, del potere, forse della reazione. E se qualcuno di noi si sorprendeva a canticchiare “sciaba-da-ba-dà, sciaba-da-ba-dà” (il tema di Un uomo, una donna) subito si vergognava, e passava a fischiettare il Morricone di Per un pugno di dollari.
A distanza di decenni, e dopo aver visto il suo nuovo film Finalement a Venezia (fuori concorso), noi vorremmo abbracciare Lelouch e chiedergli scusa. L’opinione diffusa su di lui si è modificata nel tempo, e fra poco ne parliamo. Ma questo nuovo film, sia pur con alcune lungaggini nel finale, è una delizia. E soprattutto è un film sorprendente. E diteci voi un altro regista che a 86 anni sia capace di sorprendere. Finalement ha tutta l’aria di un film-testamento, ma conoscendo Lelouch non si può mai dire: ha diretto una sessantina di film dal 1964 a oggi, una media di un film all’anno, ed è forte il sospetto che lontano dal set si annoi e che raccontare storie sia un eccellente modo di rimanere giovane. Tra l’altro i film-testamento, a parte pochissime eccezioni (come The Dead – Gente di Dublino di John Huston), non esistono: raramente i registi decidono in anticipo la data della propria morte, e per Lelouch speriamo tutti che sia molto lontana.
Certo, Finalement è una specie di “summa”: a cominciare dal fatto che il protagonista si chiama Lino Massaro come il personaggio di Lino Ventura in L’avventura è l’avventura, uno dei film più famosi e amati del nostro. Infatti Lelouch si diverte di tanto in tanto a insertare la narrazione di Finalement con spezzoni del vecchio film, come a suggerire che Lino Massaro/Ventura sia il padre del suo nuovo personaggio. E allora non sarà superfluo ricordare che quel Massaro, quello di L’avventura è l’avventura, era un truffatore di professione.
Il suo erede invece potrebbe essere definito un truffatore controvoglia: interpretato dal franco-algerino Kad Merad, è un avvocato improvvisamente colpito da una strana sindrome – detta anche “la follia dei sentimenti” – che gli toglie “i filtri”, lo rende incapace di trattenersi dal dire la prima cosa che gli passa per la testa. Girano strane sinossi, del film: qua e là si legge che sarebbe la storia di un uomo che non sa mentire. In realtà è la storia di un uomo che mente come respira, ma non per dire bugie, bensì per dar sfogo alle voglie più matte, alle tante vite alternative che da grigio penalista non ha potuto vivere. In molti casi Massaro si identifica nei lestofanti che ha difeso in tribunale: lo vediamo entrare in scena mentre confessa a un contadino, che gli ha dato un passaggio, di essere un “prete scomunicato” perché dedito a sesso sfrenato con tutte le sue parrocchiane; più in là vediamo il processo in cui difende il prete. Sono panzane, come quasi tutte le cose che racconta. Gli servono per fuggire da una quotidianità, e da una famiglia, che non capisce più.
Lungo tutto il film Massaro girovaga per le strade di Francia, un po’ come la vagabonda di Senza tetto né legge di Agnès Varda (la protagonista di quel film già Leone d’oro, Sandrine Bonnaire, fa un ruolo non secondario) o come i pellegrini di La via lattea di Bunuel. L’immenso capolavoro religioso del sommo Don Luis viene citato un paio di volte, quando Massaro incontra dei viandanti diretti a Santiago de Compostela e soprattutto quando chiacchiera amabilmente con tredici strani figuri che si rivelano essere Gesù e i suoi apostoli. “Come si chiamano i tuoi amici?”; “Lui è Pietro, poi c’è Giovanni, Giacomo, Giuda…”; “Ah, c’è anche Giuda? E che ha da sorridere?”; “Noi siamo felici, sorridiamo sempre”… Li lascia con l’aria di chi pensa “Sì, te ne accorgerai!”, e prosegue il suo cammino che dalla Normandia lo porterà fino ad Avignone, inseguito invano dai familiari e dalla polizia.
Ogni tanto gli incontri diventano surreali: in un bistrot Massaro offre da bere a un barbone e gli chiede: “Come ti chiami?”; “Dio”; “Di cognome?”; “Sì”; “E di nome?”; “Dio”; “Ah, quindi tu saresti…”; “Certo, sono Dio”. In altri momenti partono sequenze che forse sono ricordi, forse sono sogni. In una, approfittando dell’incontro con una scrittrice che forse è Valérie Perrin, compagna di Lelouch dal 2006, viene rievocata una storia terribile avvenuta a Parigi durante l’occupazione nazista: la nonna della scrittrice, di famiglia ebrea, viene salvata dalla deportazione dalla sua portinaia, che la prende come figlia propria; la donna scoprirà anni dopo che la portinaia, impossibilitata ad avere figli, aveva denunciato alla Gestapo la sua famiglia per potersi impossessare di lei.
A questo punto sarà utile ricordare che Lelouch è figlio di un ebreo, uno degli «indigènes israélites d’Algérie» che furono naturalizzati dal governo francese nel 1870, e che durante la guerra visse una rocambolesca odissea tra l’Algeria e la Francia, dove i suoi genitori tentarono in tutti i modi di nascondersi ai tedeschi. Vuole la leggenda che la mamma lo “parcheggiasse” di giorno nei cinema, e che la sua passione cinefila sia nata così. Punteggiato di canzoni (a volte un po’ zuccherose), di citazioni (anche da I ponti di Madison County di Eastwood) e di scene surreali, Finalement è un film gioiosamente sgangherato. Lelouch è da sempre un sapiente narratore di storie, un grande aedo del cinema popolare: lì sta la sua grandezza, nelle storie fluviali che sembrano non dover finire mai. Qui, per la prima volta, le mescola seguendo le non-regole dell’assurdo, e realizza il film più libero che si sia visto da anni. Perciò, ultima citazione: in L’avventura è l’avventura aveva un ruolo come attore Jean-Louis Bunuel, figlio di cotanto padre. Con Finalement Lelouch ha fatto “finalement” un film alla Bunuel, e guardate che pochissimi possono tentare un’impresa del genere senza rompersi l’osso del collo. Il collo di Lelouch, a 86 anni, sta benone.