Non sono ne’ un critico cinematografico, ne’ uno storico del cinema, ma soltanto un semplice spettatore, per cui quello che diro’ ha il valore relativo di una opinione. Prendiamo il mio amato Francois Truffaut. La peculiarità di Truffaut, tra quelli che sono considerati i Grandi Autori della storia del cinema, è quella di non aver fatto nessun “grande” film, nel senso classico di ambizioso, magniloquente, grandioso, o anche solo sperimentale. “Per i detrattori, Truffaut potrebbe essere il cineasta della medietà; per gli ammiratori, il cantore del coraggio di essere sentimentali, in grado come pochi di trasporre sullo schermo gli imbarazzi di un innamorato, la malizia di un bambino, la malinconia per un lutto, l’amore per il proprio lavoro”.
La malattia “immortale” del cinema italiano da quando i grandi autori ci hanno lasciato, e’ l’Autorismo, la pretesa di tanti nostri registi di assurgere al ruolo che nel mondo ebbero i nostri maestri, del neorealismo innanzitutto, oltre che alcuni irregolari come Fellini e Werthmuller.
Mentre il cinema americano conosce i directors, i quali si specializzano in un genere (da John Ford a Michel Mann), e ottengono fama e pubblico perche’ si fanno riconoscere in tutto il mondo per la loro arte che non trova nel genere un limite ma al contrario una sublimazione, i nostri registi iniziano a fare cinema incarnandosi ad un certo punto nel loro autore preferito. Paolo Sorrentino dopo gli esordi si e’ incarnato in Fellini (anche perche’ ha capito che Fellini nel mondo ha ancora un seguito importante tra i cinefili), Luca Guadagnino in Visconti.
Prendiamo David Fincher (1962) il quale arriva al successo nel 1995 con Seven, un thriller di culto, e soltanto successivamente al genere arriva nel 2020 con Mank ad un film personale esplicito omaggio al padre che ne aveva scritto la sceneggiatura prima della sua morte nel 2003. Tante sono le importanti influenze registiche che hanno formato Fincher, il quale oggi ha il potere di girare qualsiasi tipo di film e serie tv che desidera.
Passiamo adesso ad un coetaneo di Fincher, Alfonso Cuaron (1961), il primo regista messicano nella storia ad aggiudicarsi l’Oscar al miglior regista. Cuaron non disdegna il genere, infatti gira il terzo film della saga di Harry Potter, nel 2013 firma Gravity, con George Clooney e Sandra Bullock, un film di fantascienza ambientato nello spazio. Poi pero’ cinque anni piu’ tardi ha vinto il Leone d’oro per il miglior film alla 75ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia per Roma. La pellicola, ispirata da una storia realmente accaduta durante l’infanzia del regista, ottiene dieci candidature ai Premi Oscar. Chiunque abbia visto Roma capisce che Cuaron e’ un autore come lo intendiamo in Italia, eppure ha praticato i generi senza la puzza al naso. Un po’ come fece il nostro Sergio Leone, non a caso bistrattato per i suoi film western iniziali (definiti sprezzantemente spaghetti western), e poi solo post mortem assurto al ruolo di Autore indiscusso.
In genere i giovani registi italiani contraggono la malattia in gioventu’. Un esempio sono i gemelli Damiano D’Innocenzo (Roma, 14 luglio 1988) e Fabio D’Innocenzo con i loro tre film, La terra dell’abbastanza (2018), Favolacce (2020), America Latina (2021). Sono stati subito osannati da molti come gli autori di punta tra le nuove leve del cinema italiano, dopo 3 film scritti e diretti più altri 4 solo sceneggiati.
Solo talvolta, come nel 2023, capita di vedere in sala L’ultima notte d’amore di Andrea Di Stefano (1972), e capisci che ci sono pure le eccezioni. Di Stefano comincio’ come attore studiando all’Actor studio e passando poi alla direzione di film di genere action. Nel 2023 torna in Italia e dirige invece Pierfrancesco Favino in una storia su un tenente di polizia che deve indagare sull’omicidio del suo partner professionale durante una rapina.
In Usa il cinema e’ una industria dove i settori di competenza sono ben delineati: c’e’ chi finanzia il film, chi lo scrive e chi lo dirige. In Italia, no. L’Autorismo presenta alcuni connotati, innanzitutto il regista vuol essere il dominus del copione, della sceneggiatura (in America il director realizza il copione scritto da altri). Tale vezzo deriva dalla vecchia contrapposizione letteratura/cinema dal momento che gli intellettuali italiani (sempre a disagio con i nuovi mezzi tecnologici) ritenevano il cinema arte inferiore alla letteratura. Gli atteggiamenti che i letterati ebbero inizialmente nei confronti del cinema andavano dall’avversione all’indifferenza, ma ben presto ci fu accettazione interessata e apertura alle nuove possibilità che la nuova forma espressiva offriva. Si riteneva che un buon film dovesse essere tratto da un romanzo (che fosse cioe’ un adattamento o una trasposizione) in nome della qualita’. Gli italiani hanno sempre condiviso il pensiero di Alfred Hitchcock il quale una volta disse che «un film è finito al novantanove per cento quando è scritto», un’altra che «per fare un film servono tre cose: il copione, il copione e il copione». Per gli Autori italiani il loro ruolo di regista deve essere ben chiaro a tutti che sia superiore a quello degli sceneggiatori, nella gerarchia di produzione.
Non era pertanto concepibile che Fellini e Visconti, Rossellini e Rosi non avessero un ruolo tra gli sceneggiatori. Forse non e’ un caso dunque che il nostro Autore piu’ accreditato all’estero, Federico Fellini, comincio’ il suo percorso come sceneggiatore e fu l’incontro con Roberto Rossellini e la collaborazione alla sceneggiatura di Roma città aperta (1945) che lo avvicinarono al cinema e segnarono una svolta decisiva per la sua carriera.
Ogni Autore italiano pertanto si e’ messo accanto collaboratori fedeli, come Cesare Zavattini, che collaborò alla stesura di molti capolavori di Vittorio De Sica; Tonino Guerra, poeta e amico personale di Federico Fellini, insieme con Ennio Flaiano e Tullio Pinelli; Ugo Pirro, sodale di Elio Petri, Lizzani, Zurlini, Petri, Bolognini; Suso Cecchi D’Amico, unica donna dell’ambiente, che collaborò con Visconti, Blasetti, Monicelli; Ennio Flaiano, prezioso punto di riferimento di Lattuada, Rossellini, Blasetti, Risi, Antonioni, Fellini; Elio Bartolini, sceneggiatore amato da Michelangelo Antonioni; Antonio Pietrangeli, sceneggiatore di Germi, Rossellini, Lattuada; Enrico Medioli, sceneggiatore preferito da Luchino Visconti; Age e Scarpelli, che in coppia hanno firmato decine di film di Steno, Monicelli, Bragaglia, Camerini, Loy, Zampa. Vorrei infine ricordare Sergio Amidei (1904) che ottenne quattro nominations all’Oscar: nel 1948 per Sciuscià (1946) di De Sica, nel 1947 per Roma città aperta (1945), nel 1950 per Paisà (1946) e nel 1962 per Il generale Della Rovere (1959) tutti di Rossellini.
A mio sommesso parere tutti questi sceneggiatori che ho citato sono grandi autori e l’Autorismo dei nostri registi altro non e’ che una semplice pretesa: di avere l’ultima parola sulla realizzazione del prodotto, e di poter essere il dominus incontrastato rispetto a tutte le figure pur essenziali nella troupe: direttore della fotografia, montatore, musicista, scenografo. Insomma in Italia il lavoro collegiale non piace a nessuno, siamo tutti caporali non uomini. I nostri registi hanno quasi tutti l’ambizione che parlando di un film si attribuisca al regista mentre un film e’ davvero un’opera collettiva.