Il mondo è un grande ospedale (come cantava Luca Carboni), in cui siamo tutti un po’ malati ma siamo anche un po’ dottori. Nello specifico, l’Italia è un grande policlinico di Foggia: da un lato ci scandalizziamo del fatto che dei cafoni malmenino i medici che devono curare loro o i loro cari, dall’altro però siamo i primi a mostrare esasperazione quando la sanità va a rilento, o lo specialista non azzecca la diagnosi, oppure il medico curante, orrore!, non ci timbra il certificato. Quest’ambivalenza rientra nel più vasto quadro della considerazione in cui teniamo gli esperti, continuamente sottoposti al sospetto che noi in fondo ne sappiamo più di loro. Vale per i medici come per gli insegnanti, gli economisti o gli allenatori di calcio, per non parlare dei politici: siamo sempre lì a dire che non sono legittimati o non sono competenti, salvo poi restare di stucco quando qualcuno decide di aprire l’ambulatorio, pardon, il parlamento come una scatoletta di tonno, o irrompe vestito da sciamano in Campidoglio, oppure spara all’orecchio di un comiziante. È la democrazia dei saperi orizzontali: un grande ospedale, in cui siamo tutti un po’ popolo ma siamo anche un po’ élite.