Torino. Correva l’anno 1994, Silvio Berlusconi si insediava a Palazzo Chigi sulle macerie della Prima Repubblica, internet per i pochi che la conoscevano era un sostituto del fax o poco più, e a Torino apriva «la scuola che sognavamo quando, a scuola, ci annoiavamo», come dice uno slogan sopravvissuto fino a oggi.
A fondarla,insieme ad altri quattro coetanei, era stato uno scrittore poco più che trentenne, già molto amato e parecchio detestato grazie a un paio di romanzi e di trasmissioni tv di successo, alla capigliatura riccia, alla straordinaria capacità di affabulazione, al gusto per le dichiarazioni sprezzanti contro l’establishment letterario e accademico. La chiamarono Scuola Holden, dal nome del protagonista di un romanzo, un ragazzo che aveva odiato tutte le scuole che aveva frequentato (e da cui era stato spesso scacciato). «Sperando che J.D. Salinger non lo venga mai a sapere» recitava il primo comunicato di presentazione – ma di recente Matt Salinger, figlio dello scontrosissimo e irascibilissimo autore del Giovane Holden, ha visitato con grande soddisfazione i locali della scuola.
Trent’anni più tardi, la Holden si prepara a festeggiare l’anniversario con due giorni di festa, sabato 21 e domenica 22 settembre, nella grande sede di Borgo Dora (un’ex fabbrica di bombe) che dal 2013 ha sostituito quella, più piccola, di corso Dante (un ex laboratorio di maglieria). E ad accogliere gli invitati – tutti gli ex alunni – ci sarà ancora l’allora giovane scrittore, che naturalmente è Alessandro Baricco. Molto è cambiato fuori e dentro la scuola, Baricco ha attraversato grandi successi ed enormi dolori, ha ceduto le sue quote di proprietà al gruppo Feltrinelli – che ora ne detiene il 100 per cento – ma alla Holden continua a fare il preside, «che è una carica che non riusciremmo a spiegare ma sappiamo tutti benissimo che ruolo ha» dice al Venerdì. Da esperimento pirata per una trentina di studenti la Holden si è allargata fino a diventare un piccolo impero della formazione culturale: organizza decine di corsi in presenza e online, per manager, insegnanti, bambini delle scuole, creativi o aspiranti tali; ha un settore – Holden Studios– che progetta “oggetti culturali”, da spettacoli teatrali ad antologie scolastiche, da allestimenti nei musei a corporate storytelling per le aziende; dal 2025 aprirà a Roma un corso dedicato al cinema e all’audiovisivo. Il cuore, «il laboratorio di Formula 1 dove si sperimentano le innovazioni da applicare a tutto il resto» spiega l’amministratore delegato Giuseppe Morici, resta quella scommessa partita nel 1994: insegnare a tempo pieno, a ragazze e ragazzi in età universitaria che stanno costruendo un progetto di vita, «una famiglia di discipline che prima si pensava non si potessero nemmeno insegnare» ricorda Baricco. E che si riassume in una parola che proprio lui, trent’anni fa, introdusse nel lessico pubblico italiano, prima che tracimasse un po’ dappertutto: narrazione o, nel suo corrispettivo inglese, storytelling.
L’obiettivo principale, insomma è imparare quali sono le tecniche e i meccanismi che fanno funzionare le storie, perché raccontare storie – e saperle ascoltare, analizzare, smontare se necessario – «serve praticamente in qualsiasi mestiere». Tra cui, ma non necessariamente e nemmeno principalmente, quello dello scrittore.
Porte aperte
Alla Holden si entra dopo un test d’ingresso in presenza, uno scritto seguito da un colloquio personale (quelli per l’anno accademico 2024-25 sono ancora in corso). Si può venire da qualsiasi percorso scolastico, con qualsiasi voto, e non esistono manuali per prepararsi. I percorsi didattici principali, destinati a ragazzi e ragazze tra i 18 e i 30 anni, sono due. Il più classico si chiama Daimon (i nomi fantasiosi delle discipline sono una costante della scuola) ed è un master biennale di tecniche della narrazione. Rilascia un diploma ma soprattutto permette agli studenti di partecipare con un progetto già compiuto – un abbozzo di libro, un’idea di reportage, una strategia di comunicazione aziendale – a Opening Doors, una giornata di presentazione davanti a editori, agenti, autori tv, agenzie pubblicitarie e altri addetti ai lavori.
L’altro percorso si chiama Academy ed è una vera e propria laurea triennale: nel 2019 il Ministero ha riconosciuto al diploma l’equipollenza con i titoli di studio in Discipline delle arti musica e spettacolo, il Dams. Ecco che la scuola nata senza voti, senza esami, in forte polemica con le rigidità dell’università tradizionale, è diventata, a sua volta, una specie di università (Baricco: «Ma noi siamo andati per la nostra strada, è la scuola ufficiale che si è dimostrata più tollerante. Con lo stesso decreto è stata riconosciuta anche una scuola di circo, io lo trovo sublime»). Insomma all’Academy voti ed esami ci sono, anche se sui generis: mancano del tutto le Storie (della letteratura, teatro, cinema, ecc.) sostituite dall’approfondimento di testi selezionati; e poi ci sono materie come Valanga (che punta a far precipitare tutte le tecniche apprese verso un risultato finale) o “discipline” come Armonia, sull’importanza della composizione, Design della Mente, sui processi decisionali, Intensità, sull’uso del corpo nella comunicazione…
Tutto questo può sembrare molto teorico ma se c’è una cosa che sottolineano docenti e studenti è l’impostazione pratica della scuola: «Viene dai workshop americani» spiega Martino Gozzi, direttore della didattica, «tutti si leggono e si commentano a vicenda, e tu oltre che a scrivere devi imparare a presentare il tuo lavoro, a difenderlo. Lì il docente diventa un facilitatore, dirige il traffico». E poi al terzo anno ci sono corsi come Mercato e Curriculum, e l’ufficio di Career Service della scuola si occupa di mettere in contatto i diplomati con le aziende. «All’85 per cento trovano un qualche tipo di collaborazione entro un anno» assicura la responsabile Lavinia Gendusa. «A grandi linee la metà finisce per lavorare nella comunicazione, poi c’è l’editoria, a seguire cinema e tv. Certo, non tutti con un contratto stabile…».
«Surfare sulle conoscenze»
Così Remo Gilli, uscito dal biennio nel 2017, oggi lavora alla comunicazione della Lavazza: «Il bello della scuola» spiega «è che ti fa capire che la narrazione è tutto, è mille cose. Rispetto all’università che magari impone una massima specializzazione, la Holden ti fa surfare (verbo molto baricchiano, ndr) sulle conoscenze. E così crea profili pluripotenti, pronti al cinema come alla pubblicità, al ghostwriting come al video aziendale. E sì, poi magari se hai talento pubblichi anche un romanzo». Che è quello che è successo, tra parecchi altri, a Beatrice Salvioni, uscita dal biennio nel 2021: «Io avevo letto della Holden su una rivista, quando ero ancora alle medie. Mi sembrava fosse il posto per me, un posto dove si parlava tutto il giorno di storie». Alle giornate di Opening Doors il suo progetto ha convinto un’agente ed è poi diventato La Malnata, romanzo pubblicato da Einaudi Stile Libero e subito tradotto in tutto il mondo (il seguito, La Malacarne, esce a ottobre).
Il critico letterario Gianluigi Simonetti diffida di questo sistema di pitching: «Se devi presentare lo stesso prodotto a editori, agenti ed esperti di comunicazione finisce che vuoi piacere a tutti» ci dice. «E questo a volte implica annacquare un po’ lo stile. A me sembra che insegnare storytelling, la capacità di creare trame che tengano avvinto il lettore, sia l’impostazione di tutte le scuole di scrittura, non solo della Holden. Ma oggi tutti producono storie, dalla tv alla politica alla pubblicità. La letteratura è qualcosa di diverso e di più della semplice narrativa».
«Capisco la preoccupazione» ribatte Salvioni, «ma io posso dire solo di essere stata aiutata a trovare la mia voce. Del resto non avrebbe senso inseguire il mercato: per scrivere un romanzo ci vogliono fino a due anni, quando hai finito è possibilissimo che le mode siano cambiate».
Sì, ma quanto costa?
Insomma la Holden tiene a presentarsi come un posto dove acquisire competenze professionali, non (solo) come un passatempo per aspiranti artisti che magari si illudono anche che in Italia si possa campare solo di libri (ci riescono in pochissimi). Ma l’investimento vale la pena? Certo la scuola non costa poco: intorno a 10 mila euro l’anno, più le spese per la vita a Torino. «Non abbiamo sovvenzioni pubbliche, ma offriamo borse di studio assegnate in base al reddito, fino al 40 per cento della retta, e un sistema di prestiti d’onore» precisa Gozzi. «I nostri docenti sono tutti professionisti affermati, per convincerli a dedicare tempo all’insegnamento bisogna pagarli» aggiunge Annalisa Ambrosio, direttrice di Academy.
«Sfido a trovare un’altra scuola con un numero così basso di alunni per insegnante» continua Baricco. «Certo c’è un’ampia fascia di italiani che non può permettersi nemmeno l’università. Ma chi è stato qui sa che non siamo una scuola per ricchi, nemmeno solo per benestanti. Però me lo lasci dire: sono del tutto a favore dell’intervento dello Stato, ma la storia della Holden dimostra che un’istituzione culturale – un teatro, un cinema, una scuola – può stare in piedi anche solo con le sue forze».
Nel suo virtuosismo narrativo, la Holden ha finito per raccontarsi anche prendendosi in giro da sola. Un reel diventato virale sui social della scuola mostra una serie di studenti che sorridendo si autodipingono come arroganti, ignorantelli, nevrotici, viziati: «Siamo holdeniani, quindi non abbiamo mai letto Il giovane Holden»; «siamo holdeniani, quindi per noi Kubrick è un incapace»; «diamo più soldi allo psicologo che a Baricco»; «siamo tutti figli di papà». Poi arriva Baricco in persona e dice: «Gli holdeniani sono tutti bravissimi e presuntuosi, proprio come il loro preside». È vero, è falso? Di sicuro è ben raccontato. Il che è un po’ quanto volevasi dimostrare.
Sul Venerdì del 13 settembre 2024