Una settimana fa Mario Draghi ha presentato a Bruxelles il rapporto “sul futuro della competitività europea” e dall’Italia non sono arrivati che applausi. Dalla maggioranza che prima era opposizione, dall’opposizione che prima era maggioranza. Vent’anni di governo del Paese si sono congratulati con l’ex premier quando ha detto che le nostre società rischiano “una lenta agonia” per carenza di investimenti, di innovazione, produttività, competenze, per lo svantaggio competitivo nell’energia e nella transizione verde, per scarso desiderio di affrontare rischi e di aprirsi alle tecnologie già diffuse altrove. Draghi ha osservato che la popolazione nel continente “è destinata a declinare”. Ed ha sottolineato: “L’Unione europea ha raggiunto un punto nel quale, se non agisce, dovrà compromettere il proprio benessere, l’ambiente oppure la propria libertà”. Non è un invito alla resa: è un allarme volto a un programma di investimenti, modernizzazione e profonde riforme prima che il ritardo dell’Europa sugli Stati Uniti – e in parte sulla Cina – diventi difficilmente recuperabile.
Non credo sia un caso che un richiamo del genere arrivi da un italiano. Quando si viene da questo Paese, la sensibilità per i fenomeni di declino è acuta. I lettori abituali di questa newsletter non avranno tardato a riconoscere nel rapporto Draghi alcune caratteristiche dell’Italia spesso trattate qui: i problemi appunto sulle tecnologie, l’educazione, l’innovazione, la demografia, la perdita relativa di reddito rispetto ai Paesi più avanzati, l’insufficienza degli investimenti e delle loro fonti, l’attitudine indifferente di una parte della società verso la crescita economica. Tutte vecchie conoscenze. Quel che vale per l’Europa, vale per l’Italia ancora di più. Di certo Giorgia Meloni in segno di interesse ha subito invitato l’ex presidente della Banca centrale europea a Palazzo Chigi. E figure di spicco del partito della premier, dal capogruppo alla Camera Tommaso Foti (“svolta importante ed epocale”) al leader di Fratelli d’Italia all’Europarlamento Nicola Procaccini, hanno espresso il loro appoggio su quasi tutti i contenuti del rapporto. Quel testo può diventare la base di un programma per l’Italia?
Sarebbe sleale giudicare l’operato del governo nella brevità di un articolo mettendolo a confronto con un dettagliato rapporto di 400 pagine. Ci sono però un paio di elementi richiamati da Draghi sui quali si può già tentare un test. Sono fattori abilitanti, presupposti per fare quasi tutto il resto: un’amministrazione e una burocrazia che non soffochino la vita economica e una disponibilità abbondante di energia pulita, a prezzi competitivi e senza dover dipendere troppo da forniture di Paesi come la Russia ieri o l’Algeria oggi.
Senza questi due ingredienti di partenza – meno burocrazia, più energia pulita prodotta in modo autonomo – quasi niente di tutto ciò che Draghi propone può accadere. Ma in Italia cosa si sta facendo? Vediamo.
Draghi visto dall’Italia: tutti lo applaudono ma dalla burocrazia all’energia nessuno lo ascolta
Parto dagli adempimenti la cui complessità, denuncia Draghi, soffoca la crescita di molte start up. Qui non mi resta che dare la parola a Sabino Cassese, che ha scritto per il Corriere il 21 agosto scorso uno dei suoi editoriali. Il professore, già ministro della Funzione pubblica e giudice della Corte costituzionale, parla dell’attuazione di una legge delega sulla semplificazione a favore delle imprese che fu firmata due anni fa da Draghi stesso quale premier e dall’allora ministro delle Attività produttive Giancarlo Giorgetti.
«Armiamoci e partite»
Scrive Cassese del recente decreto di attuazione della delega: “Tutto fumo e niente arrosto. Non fa quello che doveva fare e cioè ridurre il peso dello Stato sull’economia ed eliminare sovrapposizioni e duplicazioni di controlli, bensì prevede che venga fatto un censimento dei controlli da parte delle singole amministrazioni (…). In una parola, il governo non ha adempiuto il suo compito (…). Gli antichi dicevano «parturient montes nascetur ridiculus mus» (i monti avranno le doglie, nascerà un ridicolo topo). Il governo, come Totò in un noto film, ha dichiarato «armiamoci e partite» per sottrarsi ai rischi di un’azione da esso stesso promossa (…), oppure è stato preso dalla pigrizia di coloro che non sanno e non vogliono superare la loro condizione, studiando”.
Gli alti costi della bolletta
E sull’energia? Draghi nel rapporto la indica fra i fattori decisivi del ritardo europeo. Si legge: “Gli alti costi dell’energia sono un ostacolo alla crescita”. Poi, più specifico: “I prezzi dell’energia continuano ad avere un impatto negativo sul desiderio di investimento delle imprese molto più che in altre importanti economie: circa metà delle aziende europee vede il costo dell’energia come un importante ostacolo”. E ancora: “Senza un significativo incremento nella capacità di generazione e di trasporto su rete, l’Europa può trovarsi di fronte a limiti nel rendere la produzione più digitale, perché per allenare e utilizzare sistemi di intelligenza artificiale e far funzionare i data centre serve un elevato consumo elettrico”. Oggi i data centre, le agglomerazioni di centinaia o migliaia server che permettono al digitale e all’intelligenza artificiale di funzionare, assorbono il 2,7% della domanda elettrica in Europa e si stima che il loro consumo fra sei anni sarà salito del 28%. Quanto all’Italia, secondo Accenture, la domanda elettrica dovrebbe salire di quasi il 20% entro il 2030.
Insomma, la disponibilità abbondante di energia a basso costo è il fattore di crescita del secolo, perché senza di essa diventa difficile competere nelle tecnologie più potenti del nostro tempo.
Noi come siamo messi? Sul gas, una fonte fondamentale per la produzione di elettricità in molti Paesi europei, lo choc della guerra in Ucraina ha strutturalmente aumentato in maniera radicale lo svantaggio dell’Europa sulla Cina e sugli Stati Uniti.
Tralascio ulteriori dettagli, ma è giusto il caso di vedere come si posiziona l’Italia rispetto al resto d’Europa. L’Italia è il Paese europeo più dipendente dal gas per produrre elettricità (nel 2022 circa per il 40%) e quello nel quale il gas ha il peso maggiore per determinare le tariffe elettriche (il rapporto le fissa circa nel 90% dei casi).
Nel 2023 l’Italia ha i costi elettrici all’ingrosso più alti d’Europa – dunque del mondo – e i costi elettrici al dettaglio più alti di tutte le grandi economie europee.
Ne ho parlato più volte: si tratta di una delle cause di fondo della profonda recessione industriale che prosegue ininterrotta nel Paese da quasi due anni e l’Istat ha appena confermato anche per luglio.
Ricetta sovrana
Di fronte a queste realtà e alle prospettive sul digitale dei prossimi anni, uno immagina che in l’Italia si stia facendo tutto il possibile – al più presto – per contenere il prezzo dell’energia elettrica e aumentare la produzione autonoma (oggi si direbbe: “sovrana”). Del resto qualche elemento di una soluzione l’ha indicato pochi mesi fa Stefano Besseghini, presidente dell’autorità di regolazione del settore Arera. Besseghini, un arbitro indipendente del mercato dell’energia, spiega che “le rinnovabili riescono a dare un contributo al prezzo e lo stiamo vendendo”.
L’elettricità da fotovoltaico entra nella rete a meno di 70 euro a megawattora, contribuendo ad abbassare il prezzo medio attualmente a poco meno di 120 euro a megawattora. All’ora di cena, quando i consumi in Italia sono ancora intensi ma il solare contribuisce poco e il prezzo è quasi tutto determinato dal gas, il mercato elettrico segna 180 euro a megawattora. Non a caso Besseghini suggerisce di accelerare con il programma sulle rinnovabili e sulle batterie che consentono di accumularne l’energia da sole e vento nelle ore in cui la loro produzione si ferma.
L’Italia avrebbe tanta strada da fare e spazio per farla. Il fatto che nel Paese scarseggi il terreno adatto è una leggenda metropolitana. Per installare 57 megawatt di fotovoltaico, quasi raddoppiando la produzione di rinnovabile nel Paese, alla potenza dei pannelli attuali bastano 70 mila ettari: una frazione minima dei 4 milioni di ettari attualmente abbandonati, lo 0,4% della superficie agricola italiana. Per realizzare il programma sulla base del quale abbiamo accettato i 194 miliardi di euro del Piano nazionale di resilienza (Pnrr) bisognerebbe installare 12 megawatt di rinnovabili all’anno, per i prossimi sette anni. Ma sappiamo già che falliremo l’obiettivo ed è praticamente certo che, anziché accelerare, si rallenterà.
I tre stop alle rinnovabili
Il decreto ministeriale sulle “aree idonee” di maggio permette alle Regioni di bloccare ogni nuovo impianto nelle aree fino a sette chilometri da beni paesaggistici: un’interpretazione stretta può escludere il 96% del territorio nazionale dall’uso per rinnovabili e sta fa già facendo salire di molto i prezzi dello scarso suolo sfruttabile, con aumenti delle bollette a valle. Ora siamo nell’ennesimo stallo, lungo mesi, nel quale le Regioni dovranno indicare le aree consentite. Il Testo unico sulle rinnovabili poi, approvato dal governo in agosto, reintroduce il diritto di veto delle soprintendenze anche solo per rinnovare gli impianti già in funzione: più burocrazia, non di meno. Infine il decreto legge “Agricoltura”, di maggio, accoglie le richieste delle associazioni agricole e proibisce di fatto di collocare i pannelli a terra come si fa in tutto il mondo: solo elevati a tre metri dal suolo, dunque più costosi.
Una delle ragioni asserite di tanta ostilità è che l’Italia dipenderebbe troppo dalla Cina, dalla quale importa (come tutti i Paesi) gran parte dei pannelli fotovoltaici. Non importa che basti comprarli una volta ogni dieci o vent’anni, non ogni mese. Nessuno intanto sembra preoccuparsi che l’azienda di Stato di Pechino State Grid Corporation of China detiene il 35% e nomina il 40% dei posti nel consiglio di amministrazione di Cdp Reti, la società che controlla le infrastrutture strategiche della luce e del gas in Italia (Snam, Italgas e Terna).
Italia bifronte
Insomma l’Italia è così, vagamente schizofrenica. Vagamente affetta da un “attention deficit disorder”, un disturbo della concentrazione. Ci lamentiamo del costo dell’energia più alto al mondo, ma non facciamo niente per ridurlo.
Applaudiamo al rapporto Draghi, ma agiamo in senso precisamente opposto (nel silenzio delle opposizioni). Diciamo di temere la dipendenza dalle tecnologie verdi della Cina e intanto abbiamo consegnato al governo di Pechino le chiavi delle nostre reti di energia. Al Forum Ambrosetti Teha di Cernobbio ho sentito la premier Meloni e il ministro della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, parlare solo di nucleare. Personalmente non sono contrario, in linea di principio; ma nessuno dei due ricorda che l’elettricità da nucleare costerebbe persino più di quella (cara) da gas naturale e al più presto ci possiamo arrivare, nel migliore e più improbabile dei casi, fra dieci anni: quando le bollette astronomiche avranno già desertificato il panorama industriale del Paese.
I critici di Draghi adesso diranno che lui stesso non è riuscito a cambiare la direzione del Paese, quando era a Palazzo Chigi.
I suoi ammiratori replicheranno che da premier ha avuto poco tempo, molte emergenze – dal Covid, all’Ucraina, alla crisi energetica – e una maggioranza frastagliata e litigiosa.
A me più che l’uomo, interessa la sostanza del suo rapporto. Mi chiedo solo se, fra governo e opposizione, qualcuno lo abbia letto.