“Piccoli equivoci senza importanza” era un bellissimo libro di racconti di Antonio Tabucchi uscito quarant’anni fa: è un titolo che un po’ di cattiveria si attaglia alle peripezie del mitico Centro politico, quell’area imprendibile tra i due incoerenti ma reali poli di destra e di sinistra. E parafrasando Tabucchi si assiste quotidianamente a piccoli trambusti nella zona politica dell’ex Terzo polo, come quando si è costretti a portare i mobili da una casa all’altra. Se si dovesse utilizzare una nozione cara al vecchio Pci, si dovrebbe dire che in quest’area si avverte una mancanza di direzione politica. Qualcosa di più dell’assenza di un leader. Tutti corrono di qua e di là un po’ a casaccio, nervosamente. L’instabilità di quest’area appare tanto più paradossale in quanto si tratta di un pezzo quantitativamente piccolo della politica italiana: ma è il destino dell’azionismo (quello di Ferruccio Parri, Ugo La Malfa, Riccardo Lombardi, gente serissima) questa “vocazione minoritaria”, forse “troppo” minoritaria. In più stavolta ci sono gli effetti tristi del fallimento di Italia viva, Azione e Più Europa alle ultime elezioni europee, un disastro politico che ha lasciato tanti elettori privi di un punto di riferimento. Inoltre, c’è stata l’improvvisa scelta di Matteo Renzi di rientrare nel centrosinistra – con quali esiti non sappiamo perché la grande maggioranza del campo largo non lo vuole tra i piedi – ma che forse per i “centristi” non è una buona notizia. Invece Più Europa di Riccardo Magi è entrata nel centrosinistra senza che nessuno chiedesse autocritiche o «pentimenti»: è abilità antica quella dei Radicali di farsi accettare. Ci sono stati o ci saranno alcuni abbandoni importanti nel partito di Carlo Calenda: Enrico Costa che torna in Forza Italia, Maria Stella Gelmini e Mara Carfagna che guardano a Noi moderati di Maurizio Lupi (si dice che Antonio Tajani non le voglia far tornare da dove erano venute, Forza Italia). Forse ne seguiranno altri, soprattutto se Calenda non darà indicazioni più precise su ciò che intende fare. Luigi Marattin ha lasciato Italia viva in dissenso da Renzi seguito da alcuni esponenti locali e ha creato l’associazione “Orizzonti liberali”, pronta a coordinarsi con i LibDem di Andrea Marcucci e Nos di Alessandro Tommasi. Da notare che Marattin e Costa giravano l’Italia insieme, ora uno è da solo e l’altro con Tajani. E infine è stato lanciato un appello sulle colonne de Linkiesta, cui hanno aderito personalità importanti, economisti, professionisti, giornalisti per creare «un partito politico unitario, autonomo dai poli, liberaldemocratico»: facile a dirsi dopo la bocciatura elettorale alle europee. Insomma, tutto un ribollire di idee e iniziative che confermano la vitalità di quest’area. Un’area che però ha sempre gli stessi problemi. Il primo è che i protagonisti non riescono mai a unire le loro forze. Un ingenuo chiederebbe: ma tutti quelli che abbiamo citato non potrebbero mettersi insieme? Un altro, meno ingenuo, risponderebbe: no, non possono, perché presto verrebbe fuori la solita storia: chi è il leader? E comincerebbe inesorabile la spaccatura del capello in quattro: quale prospettiva politica darsi? Ma la domanda più grande è quella che si pone da anni: c’è vita oltre questo strano bipolarismo? Forse sì. Però è un fatto assodato che a costruire una “Cosa di centro” non c’è riuscito nessuno mai. Cattolici, laici, progressisti, conservatori, da Mario Segni a Lamberto Dini, da Mario Monti a Francesco Rutelli a Gianfranco Fini, fino appunto al disastro autogenerato del Terzo Polo. Mentre tutte le storiche famiglie politiche nate nel dopoguerra si sono in qualche modo rinverdite sotto nuove sigle o hanno trovato una collocazione nei due poli, quella “laica” è rimasta senza casa. La mediatizzazione della politica non poteva aiutarla, né la forza della leadership che quest’area storicamente è riottosa ad esprimere perlomeno nei termini “moderni” in cui si pone oggi. Le leggi elettorali hanno favorito il riaggrumarsi dei poli lungo il crinale del bipopulismo, la stampa borghese illuminata ha perso ruolo e lo stesso dicasi per le forze economiche interessate a una politica riformatrice. Certo, c’è Mario Draghi, ultimo grande interprete del riformismo laico progressista e antipopulista, ma è una personalità che non si può arruolare in alcun modo nella lotta politica classica. Detto tutto questo, appare chiaro che le premesse non sono tanto buone. L’impressione, o per qualcuno la previsione, è che a un certo punto il bipopulismo produca una sorta di rigetto a livello non solo di élite. Ma ci vorrà qualcuno in grado di raccogliere il testimone di una battaglia per le riforme. Al momento è solo una speranza. Cioè politicamente molto poco.