I numeri ignorati e il futuro dell’auto

Il futuro presenta il conto. Per molti anni ci siamo attaccati e divisi su quei numerini che ci erano sempre stati utili a fotografare la nostra ricchezza, la capacità di crescere, lo stato di salute del nostro Paese. Gli economisti parlavano di Prodotto interno lordo, debito, deficit.
Numeri sempre utili per carità. Ma il mondo stava intanto cambiando. Ce lo siamo detti forse senza tanta convinzione. E stiamo ancora correndo il rischio di non prenderne atto. Ne sa qualcosa chi produce auto.
Nel 2023 le vendite di veicoli nell’Unione europea, mettendoci dentro anche la Svizzera e la Norvegia, sono state meno di 13 milioni (12,8). Erano circa 16 milioni (15,8) nel 2019. E questo nonostante nel 2023 ci sia stato il primo rimbalzino post Covid. Un dato che ci interroga sulla solidità e sull’ampiezza generale del mercato auto.
Nel 2008 in Europa si vendeva un terzo delle auto prodotte nel mondo. Oggi siamo a un quinto. Sempre nel 2008 si produceva nel Vecchio Continente quasi il 32% del totale mondiale di veicoli; in Cina il 4%. Secondo i costruttori di auto europei, l’Acea, nel 2023 l’Europa ha prodotto quasi il 17% di veicoli; la Cina il 32%.
La Volkswagen pensa di chiudere per la prima volta nella storia uno stabilimento. E il numero dei probabili esuberi si conta non in migliaia ma in decine di migliaia. I sindacati italiani temono anch’essi esuberi nel nostro Paese per oltre 25 mila addetti nel settore.

L’arretratezza europea, prima ancora che italiana, si misura secondo un dato fornito dall’International Foundation of Robotics. Nell’industria automobilistica sudcoreana ci sono 3.000 robot ogni 10 mila lavoratori. In Germania sono 1.500.
Intere filiere tremano al pensiero di fenomeni che non sappiamo decifrare. La doppia sfida, ambientale e tecnologica, posta dal futuro e dall’affacciarsi di nuovi protagonisti sui mercati non è stata raccolta. Nel tentativo forse di schivarle entrambe?
Ieri il governo ha incontrato le parti sociali del settore auto. Il timore è però che il risultato possa tradursi nella sola richiesta di un rinvio delle scadenze previste dall’Europa per gli autoveicoli in termini di emissioni di CO2. Ma per fare cosa? È questa la vera domanda.

Sulla manifattura europea, il peso del settore automobilistico è in media dell’8%, la Germania è a quota 11%, la Spagna all’8%, il nostro Paese 5%. Non aiuta certo il fatto di aver perso il centro decisionale del gruppo Fca diluito nella più grande Stellantis.
Le auto tedesche, e non solo, sono bellissime e funzionali grazie alla nostra filiera made in Italy. Che però resta un fornitore. Possiamo anche raggiungere l’obiettivo di diluire nel tempo l’agenda prevista dall’Europa. Ma così come il Green deal può avere aspetti ideologici anche il semplice guadagnare tempo può averne.
Come scriveva Ferruccio de Bortoli domenica scorsa sul Corriere, siamo molto attenti ai costi delle transizioni. Prestiamo però pochissima attenzione ai costi dei ritardi. Spesso cullandoci nell’illusione che i cambiamenti vadano nella direzione da noi intrapresa.
In un’indagine del Gartner group resa nota dal Financial Times si afferma in modo netto che i produttori tradizionali di auto sono rimasti molto indietro nello sviluppo del software. Nel 2040, servizi digitali e software nel settore auto conteranno per oltre il 50% dei ricavi.
Nella classifica preparata da Gartner tra i primi dieci gruppi più avanzati in termini di software necessario alle proprie vetture, ci sono solo tre case tradizionali. Due di queste sono americane: Gm e Ford, una europea, la Bmw. Tutte le altre sono sotto.

Altro che duello, questo sì ideologico, tra motori a combustione e motori elettrici. Se la scelta fosse stata solo questa, forse, sarebbe stata persino semplice (ad averla presa in tempo).

Nel rapporto stilato da Mario Draghi, nel capitolo dedicato all’auto, si propone di affermare la neutralità tecnologica rispetto alle emissioni. Vale a dire non importa come, se attraverso speciali carburanti o attraverso motori elettrici, comunque dovremo arrivare ad abbattere fino a zero le emissioni di CO2. Può essere una strada.
Meglio però non illudersi che la discontinuità sia produttiva sia tecnologica possa essere dolce. Non si tratta come in passato solo di un problema di costi, che in Europa sono il 40% in più rispetto alla Cina. Ma di scelte d’investimento delle singole case automobilistiche. E di ecosistemi.
I motori a trazione elettrica e vetture con motori non a combustione interna non possono svilupparsi senza che la produzione, la distribuzione e il mercato dell’energia siano armonizzati. Se il mondo cambia non possiamo pensare di fare finta che dal 2012 a oggi la Cina si stima abbia speso tra i 110 e i 160 miliardi per favorire lo sviluppo delle vetture elettriche.
La cifra può impressionare. Ma quello che deve farci pensare è che oltre un decennio fa si iniziava a scommettere sul motore non a combustione e su tutto l’ecosistema che doveva garantire il suo sviluppo. Colonnine di ricarica, materie prime per costruire batterie, riciclo delle batterie stesse.

Ci avevano avvertito i mercati finanziari quando avevano portato la Tesla a valere quanto tutte e tre le tradizionali case automobilistiche americane. Ci aveva avvertito l’Europa che in tempi non sospetti, ben prima del Covid, ci indicava un termine, quel tanto odiato 2035, come data finale per vendere motori a combustione.
Per troppo tempo abbiamo scelto di veder in quel limite la causa dei nostri guai. È accaduto lo stesso con il rapporto Draghi. In molti hanno preferito concentrarsi su quegli 800 miliardi di investimenti all’anno e sulla necessità di fare «debito comune» per trovarli e garantirsi il recupero di competitività di cui l’Europa ha bisogno. Pochissimi si sono divisi sulle cose da fare.
È tempo invece che l’auto, e i Paesi ci verrebbe da dire, tornino a discutere su quale direzione intraprendere. Non di una data sul calendario. Che non potrà certo ridare competitività a intere filiere e sistemi produttivi.
Impariamo dal passato. E da come ci siamo attorcigliati attorno ai decimali di prodotto interno lordo. Facile discutere di qualche numerino e di risorse (che tanto saranno sempre poche). Meno semplice tentare di disegnare e indicare strategie per la crescita e la competitività.